Maria: recensione del film di Pablo Larraín da Venezia 81
Il film di Pablo Larrain, con Angelina Jolie, Pierfrancesco Favino, Alba Rohrwacher e Valeria Golino, presentato in concorso all'81ª edizione del Festival di Venezia e al cinema dall'1 gennaio 2025 con 01 Distribution.
Dopo Jackie Kennedy in Jackie e Lady Diana in Spencer, all’81ª edizione del Festival di Venezia arriva il nuovo biopic targato Pablo Larrain che va a chiudere l’ideale trilogia dedicata alle icone femminili che hanno segnato il XX secolo; con Maria il regista cileno racconta questa volta gli ultimi giorni di vita della cantante lirica Maria Callas – scomparsa all’età 53 anni – ripercorrendone la carriera e il privato attraverso i ricordi della stessa protagonista. Scritta dallo sceneggiatore Steven Knight (La promessa dell’assassino, Peaky Blinders), la coproduzione italo-tedesca (Apartment Pictures, Fabula Pictures, Fremantle Media Company e Komplizen Film) racconta la fama, i rapporti e la psiche di una delle più grandi cantanti che la storia abbia mai potuto ascoltare. Ad integrare il cast, al fianco della protagonista Angelina Jolie, nomi illustri dall’Italia – Pierfrancesco Favino, Alba Rhorwacher e Valeria Golino – si aggregano a Haluk Bilginer (Buffalo Soldiers, The International) e Kodi Smit-McPhee, presente al festival anche con Disclaimer, la serie diretta da Alfonso Cuarón.
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Maria: il lento definirsi della fine
Si comincia dalla fine, col corpo de “La Divina” Maria Callas (Angelina Jolie) steso esanime nel proprio salotto, poi un salto indietro, a ripercorrere il declino anzitutto psichico, gli ultimi giorni di vita segnati dal ricordo e dal delirio illusorio. Il racconto si distribuisce su archi narrativi differenti, mescola il puro biografismo alla finzione, descrivendo l’intimo di lei mentre lotta con sé stessa, armata unicamente della sua musica, accompagnamento costante, dall’inizio alla fine; il bianco e nero ed i colori passano dai palchi da lei calcati, dalle prove in teatri vuoti frutto della stessa immaginazione che, per le strade di Parigi, vede avanti a sé orchestre e platee.
Il successo, il declino fisico e mentale, i rapporti; il maggiordomo Ferruccio (Pierfrancesco Favino) e la domestica Bruna (Alba Rohrwacher), uniche due presenze del suo deliro – oltre alla distante vicinanza della sorella Yakinthī (Valeria Golino) – assistono al manifestarsi delle fragilità e delle paure della protagonista che, ormai schiava dei farmaci, pare abbandonarsi alla vita, urlandola fuori con le ultime forze vocali rimastele. Un’immaginaria intervista, un’imposta autobiografia che cerca di riesumare le parti più salienti del suo vissuto, con ampio e doveroso spazio dedicato alla relazione con Aristotele Onassis (Haluk Bilginer), dalla sua origine alla morte di lui, che anticipa la dipartita di Maria, accompagnata ancora una volta dal suo canto, dall’ultimo sforzo vitale.
Cantare la vita fino a sfinirla
Un fatto di vita e di morte, dove la vita è musica e la morte è paura, dove la vita è offuscato ricordo e la morte immaginazione fuorviante. Maria Callas canta la sua grandezza e mostra la sua fragilità; è il manifestarsi di un psiche ormai allo stremo, una psiche saturata dalla carriera, dalla vocalità che ammalia il mondo intero e con cui lei sfoga tutto ciò che le rimane. Il canto è vita ma smette di essere anche sopravvivenza, non è più salvifico, ma bensì l’ultimo estremo atto di vita, che solo sul finire decide di ascoltarsi, decide di cercare di comprendere quel declino che l’accompagna nel corpo, l’accompagna nella mente e si dissimula nella voce.
Maria: valutazione e conclusione
Pablo Larrain volge ancora una volta il biografismo nell’introspezione, attento più a raccontare ciò che scuote la protagonista dall’interno e lasciando ai margini tutto il contorno, tutto il prima, mescolato ad un adesso confuso. La regia, così come la fotografia di Edward Lachman – già lo scorso anno al Festival di Venezia assieme all’autore cileno, con El Conde – catturano con sapienza lo stato allucinatorio e surrealistico di Maria, che rischia però di perdere il contatto col pubblico nella resa interpretativa e in alcune scelte di scrittura che lasciano sospeso troppo della definizione di lei, raccontata in parte e in parte data per scontata. Angelina Jolie dimostra il suo impegno ma lo dimostra anche troppo, non riuscendo a vestire con naturalezza quei panni forse da lei troppo distanti per essere del tutto colmati. La scelta di mescolare la voce originaria della cantante con quella dell’attrice è sicuramente da premiare nell’intenzione, ma la resa contribuisce a quella distanza tra le due che, in alcune sequenze, depotenzia la stessa forza di una colonna sonora che all’ascolto ugualmente omaggia, ugualmente attrae e rende merito alla grandezza dell’artista.