Venezia 78 – È stata la mano di Dio: recensione del film di Paolo Sorrentino

Presentato in concorso nella 78esima edizione della Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, È stata la mano di Dio è l'ultimo film del regista Premio Oscar Paolo Sorrentino. Un omaggio nostalgico alla sua Napoli, a Maradona e alla "medietà".  

Paolo Sorrentino, regista Premio Oscar per La Grande Bellezza (2013), torna a farci sognare dopo sette anni con un’opera maestosa quanto umana, replicabile, silenziosa. Prodotto da The Apartment e distribuito da Netflix, È stata la mano di Dio non parla di Maradona, ma “della medietà”. Un resoconto degli anni ’80 e della tanto amata Napoli attraverso le cuffie e gli occhi di un protagonista ordinario e singolare, interpretato da Filippo Scotti, costretto ad una maturità forzata dopo una tragedia familiare. Mentre era impegnato sul set di The New Pope, Sorrentino scriveva È stata la mano di Dio, un omaggio nostalgico alla sua adolescenza e un’eredità esplicativa per i figli, “summa” di ricordi personali e racconti di fantasia che trovano nell’opera una sintesi perfetta. Nel ruolo del padre Saverio Schisa, Sorrentino ha voluto Toni Servillo, quell’amico di vecchia data con cui ha stretto uno dei sodalizi artistici più provvidenziali del nostro cinema contemporaneo (Il Divo, La Grande Bellezza).

Il cinema non si fa col dolore, ma con le cose da raccontare”, e Sorrentino è maestro e allievo del racconto, demiurgo del sacro e del mediocre, il coltello con il quale “frughiamo dentro noi stessi” – direbbe Grossman. Così si entra in sala per Sorrentino, in religioso silenzio ed estasi elegiaca, perché sa scrivere gli interni e farli respirare, ed è obbligatorio farsi il segno della croce due volte: ai titoli di testa, quando il buio cala e appare Napoli abbagliata dai suoi fuochi, e ai titoli di coda, quando si patisce il dolore, indecisi sul movente.

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È stata la mano di Dio: la trama del film, in uscita su Netflix

È stata la mano di Dio cinematographe.it

Napoli, anni ’80. Fabio “Fabietto” Schisa (Filippo Scotti) studia al liceo classico e sogna di diventare regista. Minore di tre fratelli, vive con la madre (Teresa Saponangelo) e il padre (Toni Servillo) in un quartiere residenziale che fa da sfondo alle intricate vicende familiari. Quando ormai le speranze sembrano svanire, Maradona arriva a Napoli: i balconi si infuocano, la gente esulta e glorifica il miracolo de El pibe de oro. È il tempo giusto per crescere, per fare l’amore, per esibire il walkman dalle tasche dei jeans sbiaditi, per battere le mani a tempo in curva B e prendere aria controvento sul sellino di un motorino elettrico. Ma quando una terribile tragedia si abbatte sulla famiglia, la pazzia giovanile non legittima più le scelte e la felicità diventa una consapevole, deludente illusione. L’amaro disincanto di Fabietto si trasforma nel bisogno di assaporare la vita ad una velocità diversa, inseguire un sogno per regalarsi di nuovo la spensieratezza di una gioventù strappata troppo in fretta. L’evoluzione del protagonista, questo viaggio dell’eroe medio, si consuma rapido, sotto la maschera apparentemente serafica della banalità, e col suo incedere lento e riflessivo Fabietto sperimenta le possibilità dell’essere umano, l’occasione del dolore e la necessità dell’ispirazione.

È stata la mano di Dio, il nuovo film di Paolo Sorrentino.Tre arance, Maradona e falsi miti

È stata la mano di Dio cinematographe.it

È stata la mano di Dio è un titolo provvidenziale, ambiguo, allusivo. Sembra di vedere Maradona, ma è di spalle, in macchina, troppo lontano per essere il protagonista. Maradona è un atto politico, una rivoluzione, è per Napoli come Beatrice per Dante: guida salvifica e chiave paradisiaca. La realtà dei fatti è che l’opera del regista è una storia possibile con cui è difficile non entrare in empatia. Sorrentino amplifica i volti, indulgente sui primi piani che sembrano voler cancellare, come una carezza, la disillusione giovanile di fronte alle avversità incalcolabili della vita. Se è la magnificenza registica, da un lato, ad avverare le previsioni del successo dell’opera, dall’altro è il mestiere dei suoi “volti”: Toni Servillo e Teresa Saponangelo regalano, nel breve tempo a disposizione, una prova attoriale incredibile, complici di una congiunzione astrale che, per quanto umana e fallibile, si realizza sullo schermo attraverso una sapiente opera di sottrazione.

I personaggi sanno comunicare anche senza parlare

La scelta di aggravare la sceneggiatura sul piano lessicale, aggettivale, semantico nella sezione introduttiva compensa la linea di detrazione che Sorrentino sceglie per indagare lo spettro emotivo dei suoi personaggi, abili nel ridurre ai minimi termini gli orpelli della performance per offrire un profilo più verosimile delle sensazioni umane. Il Fabietto di Filippo Scotti comunica senza bisogno di parlare, atteggia il corpo come fosse un veterano dietro la macchina da presa e si fa padrone di urli muti che, nell’osservatore, riecheggiano a lento rilascio all’altezza dello stomaco. Fabio Schisa è il profumo della nostalgia, delle speranze che tutti – dall’adolescenza in poi – hanno riposto nel futuro. Alle volte uno si sente incompleto, ed è soltanto giovane – diceva Calvino. La linea cromatica ascendente della fotografia (Daria D’Antonio) – sempre magistrale – segue servilmente le fasi di maturazione del protagonista: all’adolescenza spensierata, contrassegnata da istantanee a tinta satura, fanno eco immagini artiche e glaciali che ricalcano lo stato emotivo dei personaggi, sconvolti dal dolore. La colonna sonora (Lele Marchitelli) inquadra il contenuto nella forma, lo rende progressivamente più compiuto e pervasivo fino all’atto finale, quando su un treno diretto a Roma si sente fluire l’incanto di Pino Daniele, che sulle note di Napul’è tinge l’ultima immagine in movimento di Fabio.

Sorrentino si fa Virgilio in questo viaggio tra le inviolabili mura domestiche, dipinge i non-detti sui volti dei suoi attori, condensa amore, lutto e nostalgia in un fischio sussurrato oltre ogni peccato. Come le terrazze romane per Jep Gambardella (il protagonista de La Grande Bellezza, sempre interpretato da Toni Servillo), così le lunghe tavolate estive sui viali alberati avverano il pretesto per consumare il pregiudizio e le chiacchiere, di cui si fanno vessillo i personaggi caricaturali, grotteschi e tragicomici di diretta derivazione felliniana. L’incontro propedeutico col dolore riconcilia l’uomo con le sue chimere, che irrequieto trova la sua tregua – come la dolce Maria – nel fingersi un giocoliere con le sue arance.

Presentato in concorso nella 78ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, È stata la mano di Dio è in uscita in alcuni cinema selezionati il 24 novembre
e su Netflix il 15 dicembre 2021.

Regia - 4.5
Sceneggiatura - 5
Fotografia - 5
Recitazione - 5
Sonoro - 4
Emozione - 4

4.6