Bring Her Back: recensione del film dei fratelli Philippou
Non è un film per tutti: lo sguardo e lo stomaco richiesti non appartengono a un pubblico generalista.
A tre anni di distanza dal folgorante esordio Talk to Me, i fratelli Philippou tornano — ancora una volta sotto il segno dell’horror, della newyorkese A24 e del sinistro leitmotiv (ora lo sappiamo) che informa il loro cinema — con uno sguardo gustosamente efferato e divertito, capace di riflettere ferocemente sul legame (im)possibile tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Bring Her Back è in sala a partire da mercoledì 30 luglio, distribuito da Sony Pictures Italia.
I fratelli Philippou ripartono da Talk to Me

Così come in Talk to Me, anche in Bring Her Back i Philippou raccontano una realtà adolescenziale violata fin da subito: tanto dai traumi di una violenza familiare sopita e mascherata, quanto dalle conseguenze di un lutto che altera immediatamente gli equilibri di una famiglia già frammentata. È il caso di Piper (Sora Wong), ragazza ipovedente ed emarginata dai coetanei, e del problematico fratellastro Andy (Billy Barratt), maggiormente segnato da un passato che ci è rivelato solo in un secondo momento.
Impossibilitati a vivere in autonomia dopo la tragica morte del padre, i due finiscono sotto la custodia di Laura (Sally Hawkins), una donna sola e apparentemente goffa, che condivide con loro le conseguenze, sempre più sinistre, di un lutto negato — o forse filtrato da uno sguardo altro, capovolto, o ancor peggio, distorto rispetto al mondo dei vivi e al logorio degli affetti.
Considerato l’indubbio consenso critico riscosso dal loro esordio, l’attesa per il secondo film rischiava di compromettere (come spesso accade) la carriera dei due ambiziosi youtuber — noti per anni con lo pseudonimo RackaRacka — poi diventati, per nostra fortuna, autori di un cinema horror preciso, appassionato e personale, come raramente ci capita di vedere oggi, sia al cinema che in TV.
Gli australiani Philippou, ben lontani dalle logiche hollywoodiane, non si sono lasciati travolgere dal successo né hanno ceduto alle pressioni forsennate delle grandi major (rifiutando infatti di girare un sequel diretto di Talk to Me), scegliendo invece di attendere un tempo di vita e di scrittura che ha prodotto esiti inaspettati e — lo diciamo subito — impeccabili. Se Talk to Me resta una folgorazione, metafora stoner e orrorifica di un lutto che perseguita e trascina la gioventù verso la perdizione (cos’è quella mano, se non un patto oscuro tra chi è già perduto e chi può ancora salvarsi?), Bring Her Back ne raccoglie l’eredità, deviando però verso il male che gli uomini fanno — e si fanno. Ancora una volta, in nome di un patto. A sostituire la mano, qui è l’acqua: elemento di vita, e di morte.
Bring Her Back: valutazione e conclusione

Lo sguardo dei fratelli Philippou è sadico, rigoroso e dinamico, al punto da non richiedere alcun virtuosismo estetico. A sconvolgere corpi, volti, equilibri ed emotività — tanto dei protagonisti quanto degli spettatori, incollati alla poltrona e incapaci di distogliere lo sguardo — è un linguaggio via via più misterico, macabro ed efferato. Siamo nei territori del cinema estremo, e i due registi non intendono relegare l’eccesso all’off screen o alla semplice suggestione: lo espongono invece in primo piano, costringendo alla resa o, in alternativa, a una rara forma di voyeurismo feroce e divertito. Ed è proprio qui che il film riesce: in una vera e propria danza macabra.
Come già detto, i Philippou — la cui idea di cinema poggia su una scrittura solida e matura, fortemente debitrice di un immaginario che oscilla tra Michael Haneke, William Friedkin, Sam Raimi e M. Night Shyamalan — tornano sul tema del lutto giovanile e familiare, trattandolo ancora una volta come trauma destabilizzante. Ma stavolta, la parabola è ancor più disturbante: una discesa infernale, sì, ma profondamente umana, che racconta l’oscurità disperata degli istinti materni e il male silenzioso che serpeggia anche nelle dinamiche familiari più apparentemente armoniose. La reiterazione del rito passa prima per la morte, poi per la vita.
Al netto di alcune suggestioni che rimandano a David Cronenberg e Ari Aster, i Philippou — al loro secondo lungometraggio — dimostrano di possedere una cifra stilistica ormai riconoscibile, che affonda i denti (letteralmente) nella carne viva del racconto, sospeso tra dramma e horror. Non è un film per tutti: lo sguardo e lo stomaco richiesti non appartengono a un pubblico generalista. Ma la seconda prova supera la prima. Memorabile.