Arthdal Chronicles: recensione della serie Netflix

Recensione di Arthdal Chronicles, nuova serie TV fantasy prodotta in Corea, già da molti considerata la risposta orientale a Il Trono di Spade.

Fortuna vuole che, all’interno del suo vastissimo catalogo, Netflix dia sempre più spesso ai suoi utenti – anche italiani – l’occasione di conoscere serie al di fuori del mercato occidentale. Arthdal Chronicles ne è l’esempio più recente: disponibile sulla piattaforma di streaming dall’11 giugno con i primi due di diciotto episodi, la serie è di produzione sudcoreana e vede tra i protagonisti Song Joong-ki, Jang Dong-gun, Kim Ji-won e Kim Ok-bin. Il drama diretto da Won Suk Kim e scritto da Kim Yeong-hyeon e Park Sang-yeon, il duo di sceneggiatori dietro a prodotti come Deep Rooted Tree e Queen Seondeok, ha recentemente attirato l’attenzione dei media, etichettato dai più come “la risposta orientale” a Il Trono di Spade.

Arthdal Chronicles è non a caso un fantasy, genere non alieno alla serialità sudcoreana (è il caso, ad esempio, di Abyss, disponibile su Netflix), che colpisce per l’accuratezza e la complessità dell’epica che scena dopo scena scorre sotto gli occhi dello spettatore. Un’attenzione per i dettagli che non risparmia neanche la sigla, che per la sua ricostruzione topografica del mondo di Arth non può non ricordare da vicino la serie HBO che ne costituisce, di fatto, il principale modello di riferimento.

Quello di Arth è tuttavia un mondo pre-medievale, più arcaico e selvaggio rispetto a quello nato dalla penna di George R.R. Martin, prima ancora che esistessero la proprietà e le gerarchie sociali. “Questa terra è di tutti” dichiara all’inizio della puntata Ragaz (Teo Yoo), creatura con labbra e sangue blu che nell’universo della serie appartiene al popolo dei ‘Neanthal’, uomini dotati di poteri sovrannaturali e legati a uno stato di natura fatto di magia e di spiriti, in cui la civiltà è ancora di là da venire e l’uomo è animale tra altri animali. Un mondo che, all’interno di Arthdal Chronicles, si va inesorabilmente a contrapporre a un’altra dimensione, una società più vicina alla nostra moderna sensibilità, animata dalla volontà di elevarsi a impero e nazione. È questa la comunità dei Saram, un gruppo di tribù tenute insieme dalla ferrea guida del potente clan Asa del Picco Bianco.

Arthdal Chronicles: la serie fantasy che viene dalla Corea del Sud sorprende per originalità e cura dei dettagli

Arthdal Chronicles, cinematographe.it

Non è un caso che lungo tutto il primo episodio di Arthdal Chronicles ricorra più volte l’immagine della piramide, emblema del vero filo conduttore della serie: la prevaricazione di un popolo sull’altro. Da una parte una società “verticale”, strutturata secondo classi e gerarchie ben definite e dominata dalla volontà di dominio dell’uomo sulla natura. Dall’altra un modello di civiltà “orizzontale”, dove tutti sono uguali tra loro e niente appartiene a nessuno. Nel momento in cui le due realtà diametralmente opposte entrano in contatto, la guerra è inevitabile e gli uomini cosiddetti “civilizzati” non esitano a ricorrere ad astuzia e perfidia pur di conquistare il potere. Emblema di questo modus operandi è il personaggio di Tagon (Dong-Gun Jang), il figlio del capo clan nonché principale villain della serie, principe di machiavellica memoria dalla mente acuta e priva di scrupoli.

Da questo atavico scontro prende le mosse il complesso mondo di Arthdal Chronicles, in cui 18 puntate di straordinaria durata (ben 80 minuti), inusuale per la serialità occidentale, si sviluppano come altrettanti capitoli di un romanzo suddiviso in tre parti – le prime due disponibili tra giugno e luglio mentre la terza concluderà il ciclo a settembre – tre diverse fasi di una saga epica monumentale, che spicca nell’attuale panorama televisivo per la sapiente commistione tra gli elementi più vicini alla sensibilità di un pubblico internazionale ed altri più squisitamente ‘autoctoni’.

Arthdal Chronicles rientra infatti a pieno titolo nella categoria televisiva, immensamente popolare nell’altra metà del mondo, che va sotto il nome di k-drama, una vastissima produzione, in cui spicca (per citarne solo una tra le tante) la serie Winter Sonata, prima a riscuotere un enorme successo presso un pubblico internazionale. Un fenomeno che non riguarda soltanto le serie sudcoreane ma investe tutta l’industria creativa e d’intrattenimento della Corea del Sud, dal cinema alla moda, passando per la musica, con l’ascesa (anche tra i ragazzi occidentali) del K-Pop.

Arthdal Chronicles, cinematographe.it

È sotto gli occhi di tutti, del resto, lo sviluppo dell’industria cinematografica sudcoreana, che ha ormai conquistato il suo posto all’interno del cinema d’autore (dalla recente vittoria di Parasite, il film del sudcoreano Bong Joon-Hosi all’ultimo Festival di Cannes, ai film di Kim Ki-duk, acclamato regista di Ferro 3 e Primavera, Estate, Autunno, Inverno… e ancora Primavera), come in quello del cinema ‘cult’, con titoli – ormai celebri anche in Occidente – come Old boy e Lady Vendetta (del regista Park Chan-wook).

È questa la Korean-wave, l’’onda anomala’ della cultura pop coreana, che sta già investendo anche l’Italia e di cui Arthdal Chronicles costituisce l’ultimo brillante esempio. Fortuna davvero, quindi, che Netflix dia anche agli utenti italiani – e sempre più spesso – l’occasione di conoscere serie al di fuori del circuito europeo e americano. Questa in particolare, al di là degli inevitabili confronti che già circolano in rete, merita sicuramente la visione.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Recitazione - 3
Sonoro - 2.5
Emozione - 3.5

3.4

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