Requiem for a Dream: recensione del film cult di Darren Aronofsky

La recensione del secondo film di Darren Aronofsky, con cui è stato consacrato come autore della cinematografia contemporanea americana. Una quadrupla riflessione sulle dipendenze all'inizio del nuovo millennio

Quattro storie di dipendenza intrecciate fra loro, una colonna sonora ipnotica, una regia che ha fatto scuola. Requiem for a Dream di Darren Aronofsky è un vero e proprio cult per la generazione che ha imparato ad apprezzare il cinema d’autore negli anni Duemila e una sintesi delle nevrosi del decennio allora appena concluso: gli anni Novanta.

Requiem for a Dream, epitaffio di una generazione bruciata

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Requiem for a Dream è il secondo film di Aronofsky, proposto al pubblico due anni dopo la sua opera prima π – il teorema del delirio, uscita nel 1998. Conservando una forte coerenza stilistica, il regista continua a indagare nelle psicosi umane, associandole – in questo caso – al concetto di dipendenza. Tre su quattro dei protagonisti del film, Harry (Jared Leto), Marion (Jennifer Connelly) e Tyrone (Marlon Wayans) sono dipendenti da eroina, la quarta – Sara (Ellen Burstyn) è invece dipendente dalla televisione.

All’inizio del nuovo millennio, in piena paranoia globale – tra Millennium Bug e ansie da fine del mondo – ci si voleva mettere alle spalle il periodo buio dell’eroina, che aveva portato via diverse personalità-simbolo di quegli anni. L’alto tasso di dipendenza che questa droga riesce a sviluppare aveva avuto degli effetti devastanti sulle ragazze e sui ragazzi che hanno vissuto la loro adolescenza e la loro giovinezza nel decennio di mezzo tra i gloriosi anni Ottanta e gli ancora misteriosi anni Duemila. Cult come Trainspotting (1996), romanzi / film – verità come Christian F. – noi ragazzi dello zoo di Berlino (1981), la morte di Kurt Cobain (1994) avevano raccontato a tutto il mondo quanto pericolosi fossero gli effetti di questa droga e quanto degradanti per sé e per gli altri fossero i comportamenti di chi non riusciva a farne a meno.

Requiem for a dream è il canto definitivo di quella generazione. La storia raccontata da Aronofsky non lascia alcuno spazio alla speranza, mostrando esseri umani condannati dalla loro stessa debolezza. Il regista non concede scampo, né redenzione: tutt’al più compassione da parte dello spettatore, che arriva fino ai titoli di coda con una morsa sempre più stretta allo stomaco.

Forma e contenuto nel cult di Aronofsky

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Lo stile di Aronofsky è perfettamente espresso nella sua opera seconda. Oltre alla crudezza dei temi, la loro messa in scena ha sicuramente contribuito a rendere questo film un punto di riferimento per i cineasti formatisi negli ultimi vent’anni.

Il regista è diventato riconoscibile per l’alta concentrazione di tecniche alternative di ripresa e di montaggio, che determinano il ritmo particolarmente ansiogeno del risultato finale. Il coinvolgimento emotivo è incentivato dalle immagini deformate dal fish eye o dai piani sovrapposti resi dallo split screen, oltre che da diverse sequenze accelerate. Il fiato è incalzato da un montaggio serrato che raggiunge i quasi duemila tagli per un’ora e quaranta di film: le scene brevi sono una raffica di input con cui il regista bombarda lo spettatore, agganciato senza pausa né scampo al dramma dei protagonisti. Altro espediente tecnico con cui Aronofsky ama entrare nelle viscere del pubblico sono i piani strettissimi, i dettagli, come la celebre pupilla dilatata mostrata nel momento in cui i personaggi si iniettano l’eroina.

Un altro elemento rimasto nella memoria collettiva degli spettatori, è il main theme musicale del film, Lux Aeterna di Clint Mansell. Insieme al montaggio, con cui costruisce un felicissimo connubio, il tema rende il prodotto profondamente martellante, indimenticabile.

Delitto e castigo

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Estate, autunno, inverno. E nessuna primavera. Requiem for a dream è un canto di morte assoluta, che non prevede alcuna rinascita. Forse è per questo che, tra tutte e quattro, quella che colpisce di più è la storia di Sara, casalinga sola e depressa, che riversa tutta la sua voglia di vivere nell’assurdo miraggio di partecipare, prima o poi, al suo programma televisivo preferito. L’obiettivo dona nuova linfa alla donna, che è spronata a perdere peso per rientrare nel suo vestito preferito: ingannata da un medico macellaio, la donna diventerà presto dipendente da anfetamine, perdendosi nell’arco di qualche mese in un’esistenza delirante. La performance dell’attrice che la interpreta, Ellen Burstyn, è perfetta, tesa al punto giusto in una vasta gamma di sorrisi disperati, di espressioni dolci e folli. La Burstyn, candidata grazie a questo ruolo come miglior attrice protagonista agli Oscar, è sicuramente uno dei motivi principali per guardare questo film.

Difficile dire quanto Harry, Tyrone e Marion siano in realtà consapevoli della loro addiction nel momento in cui l’eroina sembra essere l’unico modo per realizzare i propri sogni, e smarcarsi dalla loro quotidianità di junkies per poter finalmente camminare a testa alta per strada. L’errore di valutazione e – in un certo qual modo – l’ingenuità non tardano a presentare il conto, che i protagonisti pagheranno tutto e pagheranno caro.

Eppure, il grande merito di Aronofsky è quello di rappresentare le conseguenze di azioni autodistruttive senza alcun atteggiamento di superiorità. Il regista, così come ben proseguirà nei suoi The Wrestler e Il cigno nero, riesce a raccontare ascesa e declino dei suoi personaggi con uno sguardo espressivo ma non giudicante, mostrando la realtà – dura e cruda – per quella che è. Il caos della vita umana, in cui non i migliori ma i più forti sopravvivono, è la grande tragedia che costituisce la poetica di questo autore, sicuramente tra i più interessanti del panorama contemporaneo statunitense.

Regia - 4
Sceneggiatura  - 3.5
Fotografia - 3.5
Recitazione - 4
Sonoro - 4
Emozione - 4

3.8