I miei vicini Yamada: recensione del film di Isao Takahata

La strampalata famiglia Yamada ci porta in una quotidianità di piccole lotte generazionali, momenti di tenerezza e riflessioni sul senso della condivisione.

Film minore dello Studio Ghibli, I miei vicini Yamada è da qualche settimana approdato su Netflix all’interno della seconda tranche di opere della celebre casa di produzione cinematografica giapponese che la piattaforma di streaming ha messo a disposizione dei suoi abbonati. Diretto da uno dei padri dello Studio Ghibli, Isao Takahata – il regista dietro al più celebre Una tomba per le lucciole, ma anche a Pioggia di ricordi, Pom Poko e La storia della principessa splendente -, I miei vicini Yamada risale al 1999, mentre in Italia il film è arrivato solamente diciassette anni dopo, nel 2016, via home video. Non aspettatevi le vette dei capolavori dello Studio ma come gli appassionati di Miyazaki e soci sanno è difficile che il gruppo Ghibli sbagli un colpo e anche I miei vicini Yamada rende pieno onore alla fama dello Studio, con la sua poesia, la sua ironia e la sua profondità, spesso nascosta, come da tradizione Ghibli, nei dettagli.

Gli haiku e l’importanza dei dettagli

I miei vicini Yamada, Cinematographe.it

I miei vicini Yamada è, prima di tutto, una narrazione della quotidianità di una famiglia di Tokyo, la famiglia Yamada, composta da papà Takashi, mamma Matsuko, dal figlio maggiore Noboru, dalla piccola Nonoko e dalla nonna Shige. S’ispira al manga Nono-chan di Hisaichi Ishii e mantiene l’originaria struttura in capitoli, arricchita dall’utilizzo di haiku che scandiscono il racconto riassumendo nei pochi versi del componimento nipponico il cuore degli episodi, nei quali è frequente che da una ciotola di udon caldi si passi a riflessioni sull’esistenza in un battito di ciglia.

“Questo è l’alto Sole. Questa è la Luna!”, esordisce Nonoko aprendo le danze e dando il via a I miei vicini Yamada. Prosegue la bambina, accompagnando i disegni acquerellati – realizzati in realtà in digitale – propri del film: “Dalla montagna dell’erba d’argento, qui c’è la Terra. E poi… questa qui è la mia nonnina!”. E sole, luna, montagna e Terra si trasformano in un ornamento che la nonnina porta in testa. Dal piccolo si passa al grande, dalla parte al tutto: Takahata non avrebbe potuto riassumere meglio che con questo incipit la chiave interpretativa della pellicola. Per ribadire che ciò a cui dovremmo prestare attenzione ne I miei vicini Yamada sta nell’angolo della stanza meno illuminato nonna Shige ci conduce per le strade del quartiere, imbattendosi nei fiori di un vicino. Anche in questo caso l’interesse della nonna non è catturato dai bellissimi crisantemi nei vasi, ma dall’insetto che ci vive immerso: “Diventa una farfalla magnifica, che non sia da meno di fiori vistosi”, commenta Shige, prima che Nonoko continui a presentare il resto degli Yamada, accompagnata dalle bellissime musiche del compositore giapponese Akiko Yano.

Ne I miei vicini Yamada lo stile del disegno esprime le emozioni dei personaggi

I miei vicini Yamada, Cinematographe.it

È una famiglia sgangherata quella che viene passo dopo passo delineata, una famiglia di pigroni – anche se la nonna, ecologista, attiva volontaria, non manca di rimproverare la figlia, ad esempio per sua disattenzione nella gestione della raccolta differenziata dei rifiuti – che non vedono l’ora di delegare ad altri le incombenze: non hanno voglia di cucinare, di mettere ordine, di uscire a comprare il cibo, nemmeno di alzarsi per prendere qualcosa. Ed è una famiglia distratta, che tra le tante cose dimentica persino la figlia al centro commerciale. Ma è anche una famiglia presente e affiatata, che sorprende il papà Takashi andandogli incontro con l’ombrello sotto la pioggia per riaccompagnarlo a casa all’asciutto, proprio quando il signor Takashi si era ormai deciso a procurarselo da sé un ombrello. Così come è una famiglia che quando il giovane Noboru è in preda alle escandescenze da primo amore gioisce con lui e quando Takashi si trova in pericolo non esita a correre in suo soccorso in una delle scene più intense della pellicola.

Il realismo non prevale sempre all’interno del film e ci sono almeno tre occasioni in cui il tono dominante viene spezzato, all’inizio, a metà e alla fine film. La prima occasione arriva dal ricordo dello sposalizio tra Takashi e Matsuko, un viaggio nella memoria in cui la torta nuziale diventa una giostra e “il vasto oceano del mondo” che i due neo sposini si preparano ad affrontare diventa un reale oceano minaccioso dove i due veleggiano tra le onde e le canne di bambù. Lo stesso stile fiabesco e surreale torna in conclusione della pellicola, un altro matrimonio, ma questa volta i coniugi Yamada e nonna Shige sono tra gli invitati e il discorso di Takashi diventa nuovamente l’occasione per sognare, sulle note della versione giapponese di Que Sera, Sera (Whatever Will Be, Will Be), tra biciclette, monopattini e ombrelli volanti in una festosa celebrazione della vita. E se in questi due momenti le regole della realtà non valgono più ce n’è uno, invece, nel quale si assiste, al contrario, a una sorta di iperrealismo che spezza comunque l’andamento del film: così come succederà nel successivo film di Takahata, La storia della principessa splendente, quando le emozioni si fanno più forti lo stile illustrativo della favola viene meno e gli Yamada non sono più dei simpatici pupazzetti stilizzati ma si fanno più simili agli esseri umani, con fattezze molto più vicine al reale. Succede quando il padre di famiglia affronta una band di arroganti motociclisti e la situazione rischia di prendere una brutta piega. La paura del signor Takashi è palpabile ma Takahata decide di raccontarcela più con la variazione del disegno che con gli altri elementi narrativi. In La storia della principessa splendente accadrà esattamente la stessa cosa quando la principessa, esasperata dalla vita di palazzo, si darà alla fuga per tornare alla campagna: in questa corsa alla ricerca della perduta felicità qualsiasi aspetto vignettistico abbandona la scena e tutto è nero, vorticoso, reale. Non a caso anche la piccola Nonoko, nel siparietto che fantastica sul matrimonio tra Takashi e Matsuko, “nasce” da una canna di bambù, proprio come la principessa splendente che si aggiudicherà il soprannome di Gemma di bambù.

Ma perché bisognerà stare tutti sulla stessa barca?

Già, perché? Perché tutti insieme in una famiglia, in una comunità, in un paese, nel mondo? È una delle domande del film, legata nuovamente al ricordo dello sposalizio del signor e della signora Yamada, quando un’anziana signora invitata al matrimonio porge le sue congratulazioni ai neo sposi offrendo loro alcuni spunti di riflessione. Tra questi: “Ma perché bisognerà stare tutti sulla stessa barca? Vengono sospetti anche su questo”. Sospetti ancor più presenti se ci si trova in una famiglia di “strambi”, come Noboru definisce gli Yamada: “Metti che avessi un uomo intelligente e affascinante per padre e una donna bella dalla figura snella e brava a cucinare per madre e che fossi nato in una casa più danarosa… Anche il mio destino sarebbe stato del tutto diverso!”, fantastica il ragazzino. Una risposta vera e propria, a questa domanda posta in modo ironico ma dal fondo amaro, non c’è, ma non ce n’è bisogno. Basta guardare la famiglia Yamada per capire che non sempre i compagni e le compagne di viaggio che ci troviamo accanto soddisfano le nostre aspettative, ma sarà altrettanto naturale comprendere che il nostro posto nel mondo non può fare altro che collocarsi all’interno di un equilibrio di forze. Un sistema nel quale ci si sente un po’ come i coniugi Yamada quado ballando insieme comunicano l’uno all’altro il proprio malessere. Nel quale, insomma, non è sempre chiaro se ci si trovi nel mezzo di una danza o di una lotta. Come canta Doris Day e come cantano gli Yamada, “ciò che sarà, sarà”.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 4
Recitazione - 4
Sonoro - 4.5
Emozione - 3.5

3.8