Venezuela, la maledizione del petrolio: intervista a Emiliano Sacchetti e Gioia Avvantaggiato

Intervista al regista e alla produttrice del documentario sull’hic et nunc di un Paese in caduta libera, il Venezuela. Un’analisi approfondita sui temi al centro del film e sul suo iter produttivo.

A poche ore di distanza dalla messa in onda su History di Venezuela, la maledizione del petrolio  abbiamo incontrato virtualmente il regista Emiliano Sacchetti e la produttrice Gioia Avvantaggiato. Attraverso un fitto e corposo botta e risposta incrociato abbiamo avuto modo di approfondire con loro gli aspetti chiave dell’opera e i temi che la amano, per poi allargare il discorso all’iter che dalla produzione ha portato sino alla distribuzione in Italia e soprattutto all’estero.

Emiliano Sacchetti e Gioia Avvantaggiato parlano di Venezuela, la maledizione del petrolio

Come, dove e quando è nato il progetto?

Emiliano Sacchetti: “Nell’inverno del 2019, subito dopo l’autoproclamazione di Juan Guaidò come Presidente ad interim del Venezuela, Gioia Avvantaggiato mi ha chiamato per parlarmi della sua idea e propormi di farne un documentario sulla crisi in atto. In quei giorni ero in mezzo all’oceano per le riprese di una docu-serie per RMC Découvert e pur essendo super impegnato ho accettato subito, sia per la stima che ho per GA&A che per la sfida che il progetto rappresentava. Conoscevo il Venezuela per esserci stato vent’anni prima e avevo notizia della situazione di crisi che stava attraversando solo dai giornali. Ho iniziato a studiare, a documentarmi e a confrontarmi con esperti (giornalisti, analisti ecc…); abbiamo scritto un soggetto che a ZDF è piaciuto e quattro mesi dopo ero sul campo, a Bogotà, per iniziare le riprese. Sette mesi di lavoro, incluso il montaggio, per un lavoro che la cronaca purtroppo ancora non ha superato. Il Venezuela è sempre sull’orlo del baratro”.

Cosa l’ha maggiormente colpita sulla carta del progetto tanto da convincerla a produrlo?

Gioia Avvantaggiato: “Questo progetto non è nato sulla carta ma nella mia testa. È nato dall’urgenza di capire cosa stava succedendo in quel paese, così lontano ma anche tanto vicino alla storia della mia famiglia e a quella di tanti italiani che laggiù si sono stabiliti o che hanno lavorato. Era un momento di grande confusione, con la Storia con la S maiuscola che passava davanti ai nostri occhi, colpi di scena continui in Venezuela e la stampa, il mondo dell’informazione, i social schierati con l’uno o con l’altro dei contendenti. Volevo capire e quindi ho cercato il team migliore, il più qualificato e pronto alla sfida, per andare a guardarci dentro, Emiliano Sacchetti per la regia, la giornalista e esperta di America Latina Giulia de Luca, Marco Pasquini per la camera”.

Come si costruisce il budget di un documentario come quello di Venezuela, la maledizione del petrolio e quali linee produttive lei e la sua casa di produzione avete percorso per dargli vita?

Avvantaggiato: “Questo film è solo l’ultimo di una lunga serie di produzioni che hanno caratteristiche simili. Tutte vanno ad investigare temi di attualità scomodi, a provocare riflessione e – laddove possibile- reazione. Parlo della cosiddetta “quadrilogia” sul Vaticano, che va dalle ragioni che portarono Papa Ratzinger alle dimissioni, i rapporti tra Vaticano e denaro con lo IOR, tra Vaticano e mafia e infine con il grande e doloroso tema della pedofilia nella Chiesa. Prima di occuparci di Venezuela abbiamo rivolto lo sguardo all’Egitto di Al-Sisi e al caso di Giulio Regeni per parlare della violazione dei diritti umani in quel paese e della colpevole connivenza dei paesi occidentali, solo interessati ai loro contratti miliardari. In qualche modo anche con il Venezuela il grande tema è lo stesso: in una logica di mercato, di strategie geopolitiche globali, l’interesse del popolo, la limitazione delle  libertà individuali e la violazione dei diritti umani finiscono per essere soltanto un danno collaterale.

Ma non stiamo parlando di cinema, parliamo di televisione o comunque di informazione. E oltre ai progetti che nascono specificatamente con un linguaggio ed un’ambizione cinematografica, ma che sono indubbiamente una minoranza nella nostra storia produttiva, questo progetto si inscrive in una delle linee editoriali principali della mia casa di produzione, forse quella che ci ha fatto guadagnare maggiormente l’attenzione e il supporto di molti broadcasters europei e non solo. Quando decidiamo di lanciarci in una nuova proposta sono i primi che contattiamo, a volte anche senza una vera e propria proposta scritta, soltanto un’idea e un punto di vista. E nella maggior parte dei casi ci appoggiano, anzi, ci “accompagnano” per citare qualcuno di loro, anche nei nuovi progetti. A loro spesso si affianca il Programma Media e qualche volta anche la televisione italiana, RAI o altre emittenti. Ma bisogna considerare che la nostra società ha anche un importante business unit che si occupa di distribuzione internazionale. Nel caso particolare di questo film è stata fondamentale perché una grossa fetta del finanziamento è stata coperta con un atto di fede dai nostri colleghi della distribuzione, permettendoci di lavorare con una certa serenità nonostante il piano di finanziamento non fosse coperto interamente”.

L’imprevisto nel documentario è all’ordine del giorno. C’è qualcosa che l’ha colta di sorpresa sia in termini positivi che negativi durante la lavorazione del documentario?

Sacchetti: “Non posso dire di essere stato sorpreso da qualcosa, perché il lavoro è stato pianificato in dettaglio e sostenuto da un minuzioso risk assessment. Più che di imprevisti, parlerei quindi di difficoltà oggettive. Le riprese sono state effettuate in Colombia, tra Bogotà e il confine con il Venezuela, e a Caracas. Bogotà è una città affascinante ma molto violenta, e il rischio di essere assaliti e derubati per strada in alcuni momenti è stato limitante. Non puoi sostare in pubblico con le telecamere per più di 10 o 15 minuti e ogni giorno di lavoro deve essere pianificato in dettaglio. La Guajira colombiana, la frontiera con il Venezuela, è una terra di nessuno, rischiosa a prescindere dalla crisi umanitaria oggi in atto; sono grato a UNHCR per averci assistito e consentito di portare a casa testimonianze molto importanti. Caracas è stata paradossalmente meno rischiosa di Bogotà perché più militarizzata, e il rischio maggiore era quello di finire in carcere accusati di spionaggio. In questi casi è molto importante poter contare su una troupe abituata allo stress che missioni di questo tipo comportano. Per questo motivo, da anni il mio direttore della fotografia è Marco Pasquini, che ad una grande sensibilità umana e tecnica unisce l’esperienza maturata in diversi teatri di guerra. Anche il fonico Juan Manuel Lopez si è rivelato fondamentale, sia perché vive a Bogotà da molti anni e conosce bene il Venezuela, ma anche perché – come me e Marco – è abituato a girare in condizioni difficili”.

Oltre alle preziose interviste raccolte a esperti del settore e a testimoni diretti e alle riprese sul campo, nel documentario sono presenti anche numerosi materiali di repertorio; come e dove li avete reperiti e quale linea narrativa e stilistica avete seguito nel loro utilizzo?

Sacchetti: “L’archivio utilizzato nel documentario proviene da diverse fonti: Innanzitutto Agenzie di stampa come Associated Press (una delle tre grandi, insieme a Reuters e France-Press), poi da filmakers indipendenti e infine da fonti istituzionali (Parlamento europeo, Nazioni Unite ecc.); parliamo di decine di ore di girato che sono state visionate e selezionate da Carlo Ghiani, prezioso ricercatore di GA&A. L’utilizzo del repertorio è funzionale alla narrazione, quella voce fuori campo che introduce, a volte commenta e soprattutto fa da fil rouge tra i contributi dei nostri protagonisti e degli analisti”.

Guardando l’opera terminata quale ritiene siano i suoi punti di forza e quelli di principale interesse da un punto di vista contenutistico e tecnico?

Avvantaggiato: “Non c’è alcun dubbio che il punto di forza del documentario sia proprio l’essere riusciti a restituire un’analisi obiettiva della situazione attuale, rispettando i punti di vista dei due schieramenti, ma inserendoli in un quadro geopolitico ampio che è poi l’unico strumento che abbiamo per capire davvero le ragioni dell’uno e dell’altro. Girare in una zona di guerra, perché quello era ed è il Venezuela ancora oggi, ha delle limitazioni ovvie e infatti abbiamo dovuto ricorrere ad una quantità maggiore di archivi di quanto non avremmo voluto. Ma era importante assicurare l’incolumità del regista Emiliano Sacchetti e del DOP Marco Pasquini, sicuramente abituati al lavoro in situazioni difficili ma comunque … Non spetta a me ragionare sugli aspetti tecnici e pur se con molte limitazioni e compromessi sinceramente penso che il punto di forza del film, il racconto puntuale e dritto della realtà,  prevalga su tutto il resto”.

Nel documentario viene analizzato l’operato di Nicolás Maduro e l’impatto che la sua elezione alla presidenza ha avuto sulla politica interna ed esterna del Venezuela, ma come cambia e se cambierà la visione che se ne ha sulla base delle accuse che l’amministrazione Trump gli ha rivolto di essere a capo di un “narco-Stato”?

Sacchetti: “Le accuse americane non sono nuove. Da anni gli Stati Uniti cercano di provare l’esistenza di un cartello che faccia capo ai vertici del governo di Caracas. Sono accuse che non mi stupiscono quindi, ma l’inserimento di Maduro nella lista dei narco-trafficanti internazionali in un momento in cui la politica estera di Trump – dopo la defenestrazione di John Bolton – sembrava essere “meno aggressiva” nei confronti del Venezuela e più orientata verso Cina e Iran, è certamente un fulmine a ciel sereno.

Personalmente non ho elementi per escludere connivenze tra governo venezuelano e narcos, ma questa situazione mi ricorda molto l’invasione di Panama del 1989, quando gli USA decisero di porre fine al governo dell’ex agente della CIA Manuel “Cara de piña” Noriega accusandolo di narcotraffico. Non vorrei che questa taglia su Maduro fosse il pretesto per giustificare l’invio dei marines a Caracas. Pino Arlacchi, ex direttore dello United Nations Office on Drug and Crime (UNODC) e che ho intervistato per il mio documentario, ci ha recentemente fatto notare come l’ultimo rapporto della DEA – il National Drug Threat Assessment del dicembre 2019 – affermi che il 90% della cocaina che arriva oggi negli USA proviene dalla Colombia, il 6% dal Perù ed il resto da paesi terzi e, soprattutto, non faccia riferimento alcuno a Maduro. Anche ammettendo che in una situazione di crisi come quella che sta attraversando il Venezuela (la cui produzione ed esportazione di greggio è ai minimi storici a causa delle sanzioni) qualcuno al governo abbia potuto pensare alla droga come valida alternativa per risanare le casse dello Stato, faccio fatica a credere che di punto in bianco Maduro possa essere diventato il nuovo Pablo Escobar”.

Venezuela, oltre ad essere un excursus sull’hic et nunc di un Paese in caduta libera, è anche a suo modo un film d’inchiesta e di denuncia; su cosa vuole principalmente porre l’accento e se c’è stata una censura o un’auto-censura che l’ha costretta a non trattare certe argomentazioni?

Sacchetti: “La denuncia è duplice: da una parte gli errori, madornali, di un governo che dalla morte di Chavez ha gestito con grande miopia e parzialità l’eredità sociale ed economica di una rivoluzione unica nel panorama latinoamericano. Dall’altra il sistema – malato – delle sanzioni economiche che gli Stati Uniti impongono da oltre mezzo secolo ai paesi non allineati. Su entrambe le facce di questa medaglia che oggi rappresenta il Venezuela, sono incisi il dolore e le speranze frustrate di un intero popolo. Quando si lavora con professionisti che hanno come obiettivo quello di fornire al pubblico gli strumenti per analizzare una data realtà, che consentano una lettura degli eventi più calma ed approfondita rispetto alle news tradizionali, secondo me non può esistere censura. Il lavoro di tutti, dal produttore esecutivo fino ai fixer che organizzano le riprese e la sicurezza sul campo, è orientato alla realizzazione di un documentario che ovviamente ha una tesi di fondo, ma che comunque è aperto a posizioni diverse”.

Ci riassume quali sono state e quali saranno le future occasioni di visibilità del film vista l’attuale situazione di stallo produttivo e distributivo provocato dalla pandemia?

Avvantaggiato: “In realtà l’Italia televisiva arriva per ultima. Il film è già stato trasmesso in diversi paesi tra i quali  Francia, Germania, Norvegia, Svezia, Svizzera, ed ha partecipato al Festival della Diplomazia di Roma e al FIGRA in Francia, una decina di giorni fa. Recentemente Trump ci ha dato un ulteriore assist alla distribuzione, riportando l’attenzione del mondo anche sul Venezuela, accusandolo di cospirazione narco-terroristica.  Penso che quando avremo coperto tutto lo scibile rispetto alla pandemia, avremo voglia di tornare a volgere lo sguardo su altri temi e altri paesi. La situazione in Venezuela resta tanto grave ora, e probabilmente ancora di più vista l’aggravio dell’emergenza sanitaria, quanto quando abbiamo girato, qualche mese fa”.

Da addetta ai lavori come ha accolto la notizia del blocco dei contributi che la Rai ha scelto di non concedere alle opere indipendenti e ai documentari sino al termine del 2020?

Avvantaggiato: “Non mi risulta che la  RAI abbia annunciato un blocco dei contributi fino alla fine del 2020. Al contrario, mi sembra che ci siano molti tavoli aperti tra le diverse associazioni di categoria, tra le quale quella nel cui direttivo sono anche io, APA, e la RAI proprio per studiare in che modo il Servizio Pubblico può rafforzare il proprio ruolo di volano dell’industria culturale indipendente di questo paese, proprio in questo momento di crisi. Giancarlo Leone e tutto il direttivo di APA hanno un dialogo continuo tra loro e con RAI e MIBACT ma anche con le altre emittenti e con le piattaforme. D’altra parte per quello che riguarda la mia attività, ho l’abitudine di collaborare con le emittenti di tutto il mondo e credo che continuerò a farlo”.

Come lei e la sua società di produzione state affrontando questo periodo di emergenza, quali misure avete deciso di applicare per portare avanti i progetti e soprattutto cosa bolle in pentola?

Avvantaggiato: “Ovviamente siamo tutti in telelavoro fino a quando sarà possibile. Le produzioni si sono fermate, per alcune abbiamo dovuto interrompere le riprese, altre erano e sono in montaggio, quelle in sviluppo verranno sviluppate ancora di più in attesa di poter riprendere il lavoro. Alcune attività possono essere svolte da casa o da studio e alcuni professionisti hanno proseguito il lavoro.  Intanto abbiamo lanciato un nuovo documentario instant sugli italiani e il Coronavirus che volge lo sguardo però anche ai grandi temi universali, oltre ad un tentativo di analisi su quello che ci aspetta tutti. In questo caso per forza maggiore stiamo lavorando con 5 filmmaker e autori sparsi in Italia e coordinati da un regista che è a Roma. Ancora una volta, stesso modello produttivo con partner europei che già hanno deciso di sostenere finanziariamente il lavoro”.

Dopo Venezuela, la maledizione del petrolio cosa bolle in pentola in termini di progetti futuri?

Sacchetti: “Prima che scoppiasse la crisi Covid-19, con Gioia Avvantaggiato e Piero Messina stavamo lavorando ad un documentario sulla Libia ed avevamo appena ottenuto il via libera per andare a Bengasi, intervistare il maresciallo Khalifa Haftar e seguire il Libyan National Army nella sua avanzata verso Tripoli. Prima ancora che chiudessero i confini per limitare la diffusione del virus, per evitare di rimanere schiacciati tra la pandemia e la guerra civile abbiamo deciso di fermarci. Stiamo continuando a monitorare la situazione, ovviamente, a studiare e a scrivere, con la speranza che appena usciti da questa crisi si possa ripartire. La situazione in Libia è più grave di quanto si pensi e il definitivo collasso di questo paese potrebbe avere ripercussioni enormi per l’Europa e gli equilibri geopolitici dei paesi del MENA (Middle East e North Africa); anche prima del Corona Virus di Libia non si parlava abbastanza, ora ovviamente ce ne siamo dimenticati.

Un altro progetto a cui stavo lavorando e che ho dovuto mettere in stand by è un documentario su una linea ferroviaria nel grande nord canadese, un treno che collega le “First Nations” di Quebec e Labrador altrimenti tagliate fuori dal mondo. Dal 2015 vivo sei o sette mesi l’anno in Canada e quando non sono in viaggio impegnato su altri progetti, lavoro in questo paese come direttore della fotografia. In questo momento di pausa forzata sto scrivendo molto, ho ripreso in mano vecchi appunti e sto sviluppando nuove idee. Questo è il tempo dell’attesa e della riflessione”.