Paolo Genovese si racconta attraverso i suoi film, tra dolore, commozione e possibilità di ricominciare

Intervista al pluripremiato regista che presenta alla nona edizione del Love Film Festival di Perugia il suo ultimo film: Il primo giorno della mia vita

Sono la spiritualità e l’ambiente le tematiche del Love Film Festival, a Perugia dal 16 al 18 giugno 2023, giunto alla nona edizione, temi che saranno al centro di tutti i film, gli eventi e i dibattiti che si svolgeranno nei tre giorni festivalieri. Il primo giorno della mia vita, ultimo film del pluripremiato autore e regista Paolo Genovese (Perfetti Sconosciuti, The Place, Supereroi), tratto dal suo omonimo romanzo edito da Einaudi, è tra i lungometraggi protagonisti del festival diretto da Daniele Corvi, con il quale il regista ha scandagliato l’aspetto più intimo e spirituale dell’animo umano. Il film racconta le vicende di due donne, un uomo e un bambino (Valerio Mastandrea, Margherita Buy, Sara Serraiocco e Gabriele Cristini) che sul punto di suicidarsi vengono salvati da un uomo misterioso (Toni Servillo) che concede loro una settimana per cambiare idea, per osservare il mondo senza di loro, per, forse, innamorarsi di nuovo della vita. Ne abbiamo parlato con Paolo Genovese.

La nostra intervista a Paolo Genovese

Paolo Genovese, cinematographe.it

In Perfetti sconosciuti ci ha parlato delle diverse vite che abbiamo, quella pubblica, quella privata e quella segreta, in Supereroi, si domandava cosa siamo disposti a fare nel tempo per amore, qui cosa faremmo se sul punto di morire per nostra scelta ci venisse data un’altra possibilità, è un film che ci fa guardare da un’altra prospettiva la nostra vita, i problemi che ci attanagliano, è come se lei volesse scandagliare tutti gli aspetti dell’animo umano nei suoi film…
Non c’è un pensiero a tavolino alla base delle storie che racconto, parlo di persone, di sentimenti, comunque di emozioni, quello che mi interessa ovviamente è raccontare alcuni aspetti della società e farlo a modo mio. Il filo rosso sono sempre gli animi umani nelle loro diverse sfaccettature, in Perfetti sconosciuti c’è la parte dei nostri demoni, quello che non vogliamo dire o che non possiamo dire, di quanto poco a volte conosciamo le persone intorno a noi. Supereroi invece è un film completamente diverso, parla sempre di coppie, mentre Perfetti sconosciuti lo racconta da un lato diciamo patologico, Supereroi invece da quello fisiologico, è la parte bella della coppia, quella che resiste. The Place scandaglia l’animo umano in maniera un po’ surreale, vuole raccontare forse la parte più oscura, quella che fa un po’ più paura a tutti. Con Il primo giorno della mia vita mi piaceva parlare della possibilità che esiste per chiunque di noi di ricominciare in qualche modo, e per farlo ho scelto un tema difficile, per molti può essere anche respingente, però mi sembrava molto interessante partire dal fondo vero, quando non sembra esserci alcuna speranza tanto da arrivare a cercare “un’uscita d’emergenza dalla vita”, per poi dare ai protagonisti la possibilità di ricominciare, di ripartire in salita”.

La depressione, il suicidio sono argomenti molto delicati, ha temuto quando ha scritto il romanzo e poi diretto il film di poter per qualche motivo urtare la sensibilità di chi attraversa momenti bui come quelli dei protagonisti?
Questo timore c’è sempre, penso che il modo per superarlo per qualunque autore è quello di approcciarsi con il massimo dell’onestà intellettuale rispetto alla tematica. I temi difficili penso che non debbano scoraggiare dall’essere affrontati altrimenti parleremmo solo di tematiche in “comfort zone”, sono più delicati però proprio per questo motivo secondo me sono interessanti e stimolanti da affrontare. Poi la reazione del pubblico è qualcosa che ovviamente mi interessa, ci penso che tipo di effetto può fare un film sullo spettatore. Devo dire che i feedback che ho avuto in tutti gli incontri con il pubblico, soprattutto le centinaia di messaggi Instagram che mi sono arrivati sono stati estremamente positivi, incredibilmente commoventi, molte persone mi hanno ringraziato per aver affrontato un tema tabù, per aver dato in qualche modo una possibilità di confronto, di riflessione”.

Paolo Genovese: “Il dolore ci tiene vivi”

Paolo Genovese, cinematographe.it

Nel film il personaggio interpretato da Valerio Mastandrea vive una situazione che secondo me vorrebbero sperimentare molte persone: quella di assistere al proprio funerale per vedere la reazione dei partner, degli amici, dei parenti…
In maniera fantasiosa, un po’ nera chi non ha mai pensato come sarà il proprio funerale, chi verrà, cosa dirà, quale dolore lascerà? Il funerale è molto simbolico e partecipare al proprio secondo me è una fantasia comune. Tutti vorremmo sapere come andrà avanti la vita dopo di noi, capire se c’è rammarico, cosa succede ai nostri figli, ai nostri amici, ai nostri parenti, alla società, e al mondo”.

Il personaggio di Margherita Buy dice una frase molto significativa: “Il tempo porta via il dolore purtroppo, anche il dolore ci tiene vivi”…
Il dolore è comunque un’emozione, è qualcosa che ti fa sentire vivo in assoluto. Molti autori e scrittori hanno dichiarato che i momenti di massima creatività sono quelli di dolore, di malinconia, di difficoltà, è un sentimento forte, molto umano. Invece il non provare nulla, come il personaggio di Mastandrea, l’essere indifferenti rispetto a tutto ciò che ci circonda è qualche cosa di insopportabile perché è difficile da combattere, anche se un dolore lo vuoi superare se non senti niente non puoi fare nulla”.

Se si trovasse al posto dei suoi personaggi quali potrebbero essere le cose che le farebbero cambiare idea, che le darebbero nuova speranza, che la farebbero innamorare di nuovo della vita?
Le dico la verità, da sempre penso che un autore non debba mai mettere sé stesso al centro della storia perché altrimenti diventa autobiografica, io ho sempre evitato di parlare di me stesso perché il rischio è di non spaziare, di non raccontare storie universali. Quindi quello che mi piace è non pensare cosa farei io ma cosa farebbero i personaggi che ho costruito. Sono vent’anni che racconto storie e chiaramente come qualunque autore prendo spunto dalla realtà, sono influenzato dalla vita dei miei amici, delle persone che ho incontrato, da tutto ciò che mi è capitato, in qualche modo è come se tutto questo venisse sublimato, concentrato nella scrittura di personaggi che non esistono. Non c’è mai stato un personaggio che ho raccontato che è esattamente una persona che ho incontrato nella vita reale, sono personaggi nuovi e ognuno di loro reagisce in base a una coerenza drammaturgica. Però io probabilmente non reagirei come fanno nel film Mastandrea, la Buy o la Serraiocco, sono personaggi completamente esterni da me”.

Paolo Genovese: “Con i miei personaggi c’è un legame forte, sono di famiglia”

Paolo Genovese, cinematographe.it

E allora quanto è affezionato ai suoi personaggi?
Sono sicuramente molto legato perché quando scrivi arrivi a conoscerli molto bene, ci stai insieme almeno per un paio d’anni tra la scrittura, le riprese del film, la promozione, alcuni vengono citati, vengono ricordati, alcune delle loro battute vengono ridette, quindi è come se diventassero un grande gruppo di tuoi amici virtuali che ogni tanto incontri nei modi più svariati, in un festival dove viene ripresentato un film, semplicemente perché qualcuno te li ricorda. In ogni personaggio c’è una parte della mia vita, c’è un legame quasi affettivo, sono di famiglia”.

Negli scorsi mesi ha portato Perfetti sconosciuti a teatro, è stata la sua prima regia teatrale, come è andata?
Una bellissima esperienza, soprattutto in un momento in cui il pubblico si sta un po’ allontanando dalla sala cinematografica, la sala piena sta diventando un po’ una chimera. Tornare in una sala, anche se a teatro invece che al cinema, vederla piena con persone che si appassionano, ridono, partecipano in maniera attiva a uno spettacolo mi ha molto emozionato. Nei film, quindi sul set, è tutto preparato prima, è tutto confezionato e sei tu che decidi esattamente cosa far vedere al pubblico, un dettaglio, un sorriso, un totale, su quale personaggio concentrarsi, quale seguire. Il teatro invece è un unicum, dove una volta che hai messo in scena la storia un po’ la perdi e il pubblico è libero di guardare ciò che vuole, guardare questo insieme come se fosse un lungo piano sequenza che non si interrompe mai, che fluisce continuamente, e poi i personaggi sono lì, vivi in carne e ossa, questo crea un rapporto molto diverso con lo spettatore”.

Ha diretto la serie Disney I leoni di Sicilia che vedremo in autunno, una storia in costume, quindi un genere nuovo per lei, le piacerebbe esplorarne altri?
L’importante è avere sempre stimoli nuovi, a me piace molto variare anche rispetto al pubblico che non sa che film farò, che non sa cosa aspettarsi. Un giorno potrei anche fare un thriller, un cartone animato, dipende dalla storia, se mi stimola può essere di qualunque tipo, non ho una strada prestabilita”.