Maura Delpero su Maternal: “la mia grande sfida era quella di creare un coro unico”

La nostra intervista alla regista di Maternal, Maura Delpero, autrice di una delle opere prime più premiate e apprezzate della stagione.

Dopo un lungo e pluridecorato percorso nel circuito festivaliero internazionale iniziato nell’agosto del 2019 a Locarno, Maternal di Maura Delpero di strada ne ha fatta. A due anni di distanza dal fortunato battesimo nel concorso della kermesse svizzera, l’opera prima della regista altoatesina ha finalmente trovato un’opportunità di visibilità nelle sale nostrane. L’abbiamo incontrata in occasione dell’uscita del film con Lucky Red lo scorso 13 maggio, per parlare dei temi trattati, dell’approccio alla materia e della messa in quadro.

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Maura Delpero parla della genesi del progetto: “Tutto nasce da un input intimo e personale, ma allo stesso tempo dalla volontà di lanciare un messaggio ideologico-politico”

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Quando e come nasce il progetto?

È stato un percorso lungo, perché i miei sono progetti che crescono nel tempo. Solitamente partono da lontano, da un sentimento o da una sensazione molto forte legati alla necessità di andare ad approfondire e indagare una questione che mi interroga, che in questo caso è stata la maternità. Il tutto nasce dunque da un input intimo e personale, ma allo stesso tempo dalla volontà di lanciare un messaggio ideologico-politico. Si tratta di un tema che nella nostra Società e nel cinema è sempre raccontato in maniera laterale ed edulcorata. Il mio desiderio era quello di metterlo al centro di un film, attraverso una storia che ne mostrasse anche le grandi difficoltà. Questa è stata la guida iniziale alla quale è seguito un lavoro di tipo più esplorativo che mi ha portato a realizzare una serie di intervista a delle madri.

Poi a un certo punto è accaduto un episodio che ha ulteriormente rimescolato le carte. In una scuola dove insegnavo è rimasta incinta una ragazzina di 17 anni, che ho seguito per l’intero arco della sua gestazione. Un evento, questo, che mi ha molto toccata e coinvolto emotivamente. Da lì ho iniziato a interessarmi alla maternità adolescenziale, una situazione che nel suo essere estrema poteva darmi la possibilità di portare alla luce le contraddizioni della maternità in generale, ma in una maniera più potente, evidente ed immediata. Solitamente per i miei progetti faccio sempre molta ricerca, il ché mi ha spinto ad andare a lavorare in uno degli Hogar che esistono in Argentina, ossia dei luoghi laici o religiosi in cui le mamme che si trovano in situazione di emarginazione e abbandono possano contare sul calore, l’affetto e la protezione che normalmente caratterizzano una casa. Mi interessava proprio questa dimensione collettiva, con le ragazze madri che vivessero tutte nella stessa casa, condividessero le stanze e fossero un po’ come delle sorelle.

Io sono andata a lavorare in un Hogar religioso, fondato da suore italiane. Lì si è chiuso il film, perché mi sono accorta che c’era un altro paradosso molto grande legato alla convivenza tra delle donne che non possono avere dei figli e delle giovani madri. Vedere le prime tenere in braccio questi neonati restituiva una tensione emotiva fortissima. Ovviamente tutto molto taciuto e contenuto, ma che sotto palpitava. Ed è quella tensione emotiva che ho voluto restituire in Maternal”.   

Maura Delpero: “Il confine tra documentario e finzione è un confine che mi piace esplorare”   

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Perché hai deciso di raccontare questa storia in un film di finzione dalla forte impronta realistica piuttosto che in un documentario come avevi fatto in precedenza?

Principalmente è stata una scelta dettata da un cambiamento organico che stava avvenendo nel mio cinema. Negli anni trascorsi a lavorare nel campo del documentario credo di aver sviluppato una sorta di sensore che mi segnala quando una situazione può reggere e accettare l’invasività di una macchina da presa. È come una specie di allarme che inizia a suonare. Per Maternal ho capito che era possibile e che ci fosse bisogno di un filtro. Documentario dopo documentario ho notato che stavano diventato sempre più narrativi e più legati a dei meccanismi di finzione. È un confine che mi piace molto e che trovo assai permeabile, perché li ritengo dei vasi comunicanti.

Su film di questo tipo trovo che sia proprio questo crinale l’aspetto più interessante, un crinale che ovviamente va gestito. Pure nelle scelte del cast, anche se misto e formato da professionisti e non, la mia grande sfida era quella di creare un coro unico. In ultimo c’era il mio desiderio di lavorare con degli attori, professionisti e no, perché avevo voglia di una relazione passami il termine più chiara. Nel documentario, invece, si viene a creare un patto di altro tipo, che nel mio caso ha significato entrare nelle vite delle persone e raccontarle nel corso del tempo. Percorsi come quelli ti assorbono completamente e ti entrano dentro. Quindi forse avevo voglia di confrontarmi con un tipo di relazione diversa e più chiara da quel punto di vista”.

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Come sei riuscita a penetrare in quei luoghi e a farti accettare?

Gli Hogar nello specifico sono dei luoghi inaccessibili, probabilmente perché in passato sono stati oggetto di sguardi più morbosi che li hanno indirizzati verso una chiusura. Quindi stanno molto attenti alla privacy. Motivo per cui mi sono presentata da subito in maniera estremamente delicata, senza entrare direttamente con la camera per filmare. Così facendo ho pensato che mi avrebbero aperto le porte con una disponibilità e una fiducia maggiori. Così è stato”.

In precedenza hai dichiarato che il cinema non è mai stato in grado di rappresentare la maternità nella sua complessità. In che modo ritieni che Maternal ci sia riuscito?

Tendenzialmente si predilige un punto di vista dominante, che di per sé è un aggettivo che non amo. C’è questa idea diffusa di uno spettatore che ha bisogno di entrare in empatia con un protagonista, del quale seguire le sorti, soffrire o godere delle sue riuscite. Insomma, il classico cammino dell’eroe. Diversamente penso che con film così sotterraneamente politici sia invece ideologico difendere l’esistenza di una collettività di sguardo, di una pluralità e di una prismaticità di punti di vista. Proprio perché raccontavo una situazione complessa mi sembrava importante mostrare diversi punti di vista sulla stessa questione. Del resto nessuno ha completamente ragione, così come nessuno ha completamente torto. Se avessi aderito a un solo personaggio a quel punto ci sarebbe stata una sola ragione, quando in realtà tutti hanno le loro ragioni e tutti hanno i loro torti. Per questo la complessità che racconto l’ho affidata a degli sguardi molteplici che sono tutti veri e convivono nella maternità. In questo modo si evita di cadere nel giudizio.

Maura Delpero: “Maternal è un film che lavora su più strati e su più livelli

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Il mio intento non è mai stato quello di giudicare, tantomeno di stabilire chi avesse torto e chi la ragione. Così come lo scopo del film non è mai stato quello di parlare di spiritualità, bensì di raccontare l’umanità e le emozioni delle donne dietro il velo e di che tipo di sentimenti contraddittori abitassero in loro davanti a delle situazioni che le facessero tremare un po’ la terra sotto i piedi. L’importante per me era che ci fosse il racconto di una comunità di donne che sembrassero inizialmente opposte e chiuse nei rispettivi ruoli, ma che finissero poi per avvicinarsi. Mi piaceva l’idea di mostrare delle donne alle prese con una lotta quotidiana tra il desiderio, la responsabilità, i desideri inconfessabili e le incertezze di portare avanti una scelta.

Maternal è un film che lavora su più strati e su più livelli, alcuni dei quali di facile lettura e altri invece che vanno colti, perché crescono piano e sotterranei nel racconto. È un’opera che sedimenta, che vuole fare riflettere lo spettatore, che esce dal cinema portando con sé dei punti di domanda su un fenomeno che a volte viene giudicato in maniera superficiale e troppo sbrigativa.

Maura Delpero: “Penso che un autore si debba continuamente interrogare su quale sia in ogni scena e in ogni momento la giusta distanza”

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Il rigore formale, la ricerca della giusta distanza, il lavoro sui corpi e sullo spazio, rappresentano degli elementi fondanti del film. Sono scelte fatte a prescindere o scaturite nel corso della produzione?

Di per sé amo un cinema essenziale. Per Maternal ho deciso sin da subito che avrei realizzato solo inquadrature fisse e infatti non c’è nessun movimento di camera in tutto il film. Questo perché la sensazione che ho avuto in quei luoghi mentre filmavo era proprio quello della staticità. Le protagoniste erano sì delle adolescenti in moto perpetuo, ma non bisognava dimenticarsi che quello dove vivevano era un posto di coercizione. Ed era questa immobilità a creare le dinamiche all’interno di quei luoghi, non l’operato della cinepresa. Proprio perché c’era quella cornice così rigida e geometrica che si potevano sentire di più certe emozioni sottese, vedere dei corpi che si muovevano all’interno e la loro vivacità. Per questo ho deciso di lavorare per contrasto e sottrazione.

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Tanto più è incandescente la materia che racconto, quanto più devo essere sobria io. Ho la sensazione altrimenti di essere ridondante e ottenere l’effetto contrario. Per me è contemporaneamente una questione etica ed estetica. Nel momento in cui sto raccontando di un’adolescente in uno stato di vulnerabilità, mi sentirei come un elefante in un negozio di cristalli se facessi un passo di troppo in avanti. Al contrario, sento che il mio passo doveva essere sempre indietro. Ovviamente è una cosa che va gestita, perché il mio compito di sceneggiatrice e regista è anche quello di emozionare lo spettatore, di trovare un’empatia con lui. Si tratta dunque di un lavoro millimetrico. In molte situazioni era più giusto, da tutti i punti di vista, riprendere un’immagine fuori dalla porta. Ad esempio c’è una scena nella quale Fatima dà alla luce la sua bambina e il fratellino va a vederla. Suor Paola osserva quell’intimità e sente di dover chiudere quella porta, di lasciarli da soli. Ecco io e la macchina da presa cerchiamo di essere lei in quel momento. Penso che un autore si debba continuamente interrogare su quale sia in ogni scena e in ogni momento la giusta distanza. A volte può anche essere un primo piano, perché particolarmente comunicativo, non necessariamente un campo lungo. Questo approccio è stato chiaro sin dall’inizio, perché per me è molto importante la dignità del personaggio.   

Maura Delpero: “Se c’è una cosa che devo riconoscere ai produttori sia italiani che argentini è proprio quella di avermi lasciato la libertà autoriale”

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C’è un ingrediente che non è mai venuto meno nel corso della lunga e faticosa gestazione?

Ho avuto la fortuna di nascere e crescere in una famiglia che mi ha fatto sempre sentire una persona libera. Libera nelle scelte e nel poter dire ciò che pensavo. La stessa libertà che ho preservato anche nel cammino da regista. Nel momento in cui si è trattato di trovare dei produttori per fare il mio primo film di finzione, ho cercato delle persone che rispettassero la libertà dell’autore. Questo è stato un film difficilissimo dal punto di vista produttivo, abbiamo passato dei momenti difficili e c’è voluto molto tempo per portalo a termine. Ma se c’è una cosa che devo riconoscere ai produttori sia italiani che argentini è proprio quella di avermi lasciato la libertà autoriale, di averla rispettata anche quando non erano totalmente d’accordo. Cioè la voce è la mia e in senso profondo pregi e difetti del risultato sono il frutto del mio operato dietro la macchina da presa e in fase di scrittura.