Gareth Edwards racconta The Creator, lo sci-fi Disney “girato come fosse un indie”

Incontro con Gareth Edwards, il regista di The Creator, il film sci-fi in uscita nelle sale italiane il 28 settembre 2023 per The Walt Disney Company Italia.

Originali e commerciali insieme, chi ha detto che non si può? Arriva nelle sale italiane il 28 settembre 2023 per The Walt Disney Company Italia ed è già un caso, perché è di tutti i giorni un soggetto sci-fi, ad alto budget, per di più originale. The Creator è diretto da Gareth Edwards, i suoi più grandi successi si chiamano Godzilla e Rogue One: A Star Wars Story; anche sceneggiatore, insieme a Chris Weitz. Ha una storia interessante da raccontare sulla genesi del film (e non solo), per questo ha incontrato la stampa internazionale – tutto solo che i colleghi attori sono in sciopero e non possono intervenire – a pochi giorni dallo sbarco nei cinema di mezzo mondo. Coerente, dal momento che il film è stato girato un po’ dappertutto.

The Creator cinematographe.it recensione

The Creator parla di un futuro (concettualmente) non troppo lontano dal nostro in cui l’umanità è in guerra con l’intelligenza artificiale. Joshua (John David Washington), il cuore spezzato per la recente scomparsa della moglie (Gemma Chan), viene incaricato di liquidare il Creator, la mente avanzatissima responsabile della creazione di un’arma talmente pericolosa da condannare il genere umano all’estinzione. Forse è meglio fermarsi qui con gli spoiler, che Gareth Edwards ci tiene a preservare il proverbiale alone di mistero. Il concept è interessante, mixa vecchio e nuovo con agilità. L’idea iniziale è arrivata all’improvviso, inaspettata. “Avevo appena finito Star Wars, ero in viaggio per raggiungere i genitori della mia ragazza nello Iowa, quattro giorni di macchina. Quando hai appena finito con un progetto, la tua mente se ne libera completamente. Non mi aspettavo di uscirmene fuori con l’idea per un nuovo film, me ne stavo lì ad ascoltare la musica con le cuffiette. E invece”.

Invece l’idea è arrivata. “Passiamo davanti a una fabbrica, c’erano delle insegne in giapponese e ho subito partorito l’associazione: Giappone uguale robot. Ho immaginato fosse uno dei posti dove li costruivano. Quindi ho pensato a un robot, appena uscito dalla fabbrica, che scopre il mondo per la prima volta. Il cielo, i prati, gli alberi: cosa prova esattamente? Man mano che andavamo avanti con il viaggio, elaboravo lo spunto, lo completavo. Ed è strano, molto strano, perché in genere, quando lavori all’idea per un film, stai lì un anno a faticare dolorosamente per trasformarla in qualcosa di coerente. Qui, terminato il viaggio, avevo gli elementi base già definiti”.

Perché The Creator è stato girato in tantissimi paesi e a cosa serve il cinema secondo Gareth Edwards

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Gareth Edwards ci teneva a muoversi in maniera diversa, con The Creator, ma non c’entra il narcisismo. C’è del calcolo nella sua “follia”, basti pensare agli sfondi. Riconducibili a sette o otto paesi diversi, va contro ogni logica degli studios, ma c’è una ragione. “E la ragione” spiega “è che è più economico. La procedura standard, per film di questo tipo, è che elabori i design per gli ambienti, li presenti, per poi sentirti dire che roba del genere sulla Terra non esiste e va tutto ricostruito in digitale, serve il green screen. Stavolta, ho subito sottolineato che le mie idee erano solo schemi preliminari e che le avremmo completate poi. Costa meno andarsene in giro per il mondo a noleggiare troupe, dico sul serio. Vulcani indonesiani, l’Himalaya, templi cambogiani in rovina, ecco cosa abbiamo trovato. Risparmiando una bella fetta di budget per gli effetti speciali della Industrial Light & Magic abbiamo girato questo film come se fosse una produzione indipendente. Di solito l’intervento in digitale si fa con un anno e mezzo di anticipo sulle riprese, qui è stato fatto successivamente”.

Il viaggio più interessante è stato in “Nepal, quattro giorni, abbiamo portato la roba a mano, una troupe ridottissima, una bella vacanza! Tutti quelli che compaiono nella scena sono abitanti di un villaggio. Sono stati incredibilmente collaborativi, pensavo avremmo incontrato delle resistenze e invece no”. Ha scelto la fantascienza, Gareth Edwards, una vocazione, perché “da bambino sono stato folgorato da Star Wars. Ti promette un mondo fantastico pieno di avventura e fantasia, poi cresci e scopri che non è proprio così. A quel punto hai varie opzioni, tra cui quella di diventare come Lucas, un bugiardo a fin di bene che racconta storie con cui cresceranno generazioni di bambini. Sono stato influenzato anche da Rod Serling, dal suo lavoro su Ai confini della realtà. Un aspetto interessante di quelle storie è che manca sempre qualcosa. Mi spiego, nella gran parte dei casi una persona vive la sua vita con un set di convinzioni preconfezionate e non gli capita mai niente di sconvolgente. Basta però che cambi una cosa soltanto, una rotellina nell’ingranaggio ed ecco che, come per magia, scopri che molto di quello che pensavi è falso. L’emozione nasce da lì”.

L’emozione è il senso del cinema, per Gareth Edwards. “Uno dei film che mi hanno influenzato di più è E.T., bisogna sempre colpire il pubblico sul piano emozionale”. Colpito, il regista, dal provino della piccola Madeleine Yuna Voyles, che nel film è Alfie. Un ruolo delicato, per cui “abbiamo fatto un centinaio di provini, eravamo in piena pandemia, ridotti con un po’ di fatica a dieci. Le riprese non sarebbero state facili, si trattava di girare nella giungla thailandese, ero comprensibilmente preoccupato. Volevo sincerarmi che le dinamiche familiari dei piccoli fossero regolari, perché non sarebbe stata un’esperienza come le altre. Madeleine era stata talmente perfetta nel primo provino che mi era venuto il dubbio ci fosse un trucco, magari la mamma le aveva detto qualcosa. Così, per sincerarmene, ho deciso di improvvisare, mi sono inventato un’altra scena. Risultato, è stata grandiosa anche lì. Fantastica nel provino, fantastica sul set”.

John David Washington eroe vulnerabile e il fascino indiscreto dell’intelligenza artificiale in The Creator

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Parlando di insperate e curiose coincidenze, l’IA (intelligenza artificiale), così centrale nell’architettura narrativa e tematica del film, oggi gioca un ruolo importante nella vita di ciascuno di noi. Uno shock impensabile nel 2018, “l’epoca in cui ho scritto il film. Allora, all’IA si pensava come a una cosa che magari, con un po’ di fortuna, potevi vedere nell’arco della tua vita”. Sui rischi inerenti a uno sviluppo tecnologico sregolato, Gareth Edwards ci ricorda che “c’è stata un po’ di turbolenza anche quando è stata introdotta l’elettricità, o Internet si è diffusa in tutto il mondo. Con il tempo ci aggiusteremo anche a questo. Ci tengo a dirlo perché, quando arriverà la robocalypse, mettendo le mani su queste dichiarazioni, loro capiranno da che parte sto e mi risparmieranno. Mentre voi sarete tutti schiavi!”.

Non pensa a un sequel. “Quando la sera scegliamo cosa guardare, la mia ragazza preferisce le serie Tv mentre io scelgo sempre e solo film. Messo alle strette, ci ho riflettuto un po’ sopra. Credo dipenda dal fatto che amo le situazioni ben definite, inizio-svolgimento-fine. Per questo prediligo i film. Non ci sono sequel in vista, ma incrociamo le dita”. Parlando del lavoro con gli attori “non bisogna dimenticare che la grande forza dello storytelling è di mostrare diversi punti di vista contemporaneamente. Quando lavori con gli attori che interpretano i cattivi devi ricordarti che, dal loro punto di vista, gli antagonisti sono altri. Loro si considerano i buoni, come le IA nel film. Quanto a John David Washington” prosegue “in questi film il rischio è che, se non sei sulla stessa lunghezza d’onda del tuo protagonista, lui farà del personaggio un duro senza debolezze. Ma io voglio le debolezze, le crepe nell’armatura. Ho pensato a una scena in cui, lontano da tutti, lui si lascia andare, è vulnerabile. Insieme agli altri è forte, sicuro di sé, ma quando è da solo cambia tutto. John era d’accordo con me”.

Cos’hanno in comune l’Asia e Star Wars, tutti imitano Hans Zimmer e perché la sceneggiatura è sopravvalutata

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Un bel rapporto, quello nato sul set tra la piccola Madeleine e il vecchietto John David Washington. “Sono diventati amici per la pelle. Lei è molto timida, riservata, ho cercato di far breccia nel suo cuore ma ci sono riuscito fino a un certo punto. Con John, no, in qualche modo l’ha decifrata. Finita una scena di solito un attore si apparta per non perdere la concentrazione. Madeleine invece si fiondava su John, lo teneva per mano e gli raccontava dei suoi giocattoli preferiti”. Lo scenario geopolitico di The Creator è America vs. New Asia perché “pur provando diverse configurazioni, Europa, Sudamerica, funzionava meglio così. La forza dell’Asia è questo strano intreccio di passato e futuro, tecnologia ed eredità religiose, mitologiche, spirituali. Un po’ come Star Wars, no? Lucas mescolava senza soluzione di continuità l’infinitamente vecchio e l’infinitamente nuovo”.

Musiche di Hans Zimmer. “Quando prepari un film, rubi spunti musicali a destra e a manca, io tantissima roba di Hans, poi la porti al compositore per fargli capire che genere di sound hai in testa e lui ti risponde scartando il materiale che gli hai proposto, perché vuole fare a modo suo. Tutti rubiamo molto ad Hans Zimmer e molti lo imitano. Stavolta però volevo che la colonna sonora non somigliasse alle cose che Hans fa di solito”.

Se c’è una cosa che Gareth Edwards guarda con un certo sospetto, sono le sceneggiature troppo rifinite. “Ogni volta che analizzo i momenti di un film che per me significano di più, si tratta sempre e comunque di situazioni che sulla pagina non fanno molto effetto. Questo perché hanno a che fare con la colonna sonora, il set design, le luci. Uno script è, in soldoni, un mucchio di gente che dice cose. Tutto qui. Non credo sia questo il fondamento di un film. Nel mio caso, cerco di risolvere i problemi creando una sorta di Bibbia visuale che per ogni scena ci fornisce un immaginario, spiega come sarà la musica, come funzionerà tutto quanto. Lo trovo più utile. Lo script è limitante, nei confronti di un’esperienza visuale”.

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