Chi è Wim Wenders: l’uomo che catturò lo spazio

Ogni scena, ogni inquadratura deve emanare leggerezza e calma. Il film come forma che tende alla chiusura, ma allo stesso tempo tende a rompere gli argini: diventa significativo proprio nelle fessure degli argini, dove qualcosa sfugge”: a dirlo è Wim Wenders, uno dei registi (viventi) che hanno fatto la storia del cinema. Ed è un pensiero perfettamente adatto al suo cinema: dove tutto sembra perfettamente levigato, salvo poi sfumare in qualcos’altro, con il tempo, perdendosi in un labirinto di senso che è la sua opera. E ancora: “Penso che ogni immagine cominci ad esistere solo quando qualcuno la sta guardando. Chiunque guardi un film lo vedrà in modo diverso, i film sono aperti affinché ciascuno di noi possa scoprirvi dentro quello che vi vuol vedere.” Il problema dell’immagine, del significato e del significante, la riproducibilità del pensiero, lo smarrimento: sono tutte caratteristiche e ossessioni di un cinema complesso e stratificato, proteso verso le strade del pensiero e geografiche che partono da uno schema narrativo tradizionale per poi avvolgersi su sé stesse in totem di senso.

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Tra la metà degli anni Sessanta e il decennio successivo, nella Germania dell’ovest alcuni registi entravano dalla porta principale nella Storia del Cinema, accomunati convenzionalmente sotto il Nuovo Cinema Tedesco: all’interno del quale, sempre convenzionalmente, la critica distingue Werner Herzog il mistico; Rainer Maria Fassbinder il melodrammatico; e Wim Wenders l’antropologo.
Perché l’archetipo di cinema del regista di Düsseldorf è perpetrato dentro un percorso interno al cinema stesso, manifestandosi attraverso le immagini, gli spazi infiniti, le caratteristiche profonde dei suoi personaggi sempre alla ricerca, nel corso del tempo di quel falso movimento che è la libertà dello stato delle cose della condizione umana (è un gioco di parole che però presenta alla perfezione il primo Wenders pensiero).

1. Il Viaggio

Alice nella Città (Alice in den Städten) del 1973, mette al centro della storia Yella Rottlander, che con la sua innocenza, il suo candore, la sua espressività costituisce il simbolo della speranza che il fotografo Rudiger Vogler ha perduto. È per questo che intraprende un viaggio malinconico, infinito, interrogandosi attraverso i suoi strumenti (la fotografia) sul rapporto tra immagine e realtà, tra finzione e visione, che da qui prendono il sopravvento e diventeranno una costante del miglior cinema di Wenders.

Inizia qui la trilogia della strada, che con Falso Movimento (Falsche Bewegung, 1975) e Nel Corso del Tempo (Im Lauf der Zeit, 1976) scandisce un percorso immaginario attraverso il racconto del viaggio dell’anima nella perenne ricerca, su percorsi di immagini e angosce i(nde)finite.
Wim Wenders costruisce un suo personale immaginario, profondamente autoriale e soggettivo nel momento in cui la vastità e l’abbandono sono i segni che fanno da ponte tra l’oscurità tedesca e la desolazione americana, in un territorio frammentato e perennemente diviso tra il senso di colpa e la malinconia.

Nel 1977 arriva L’Amico Americano, (Der Amerikanische Freund) capolavoro assoluto all’interno della filmografia wendersiana, sulla condizione di terminalità dell’esistenza umana: che ingarbuglia i quesiti esistenziali della trilogia immediatamente precedente mentre il suo impianto visivo si ispira ai quadri di Edward Hopper con colori caldi e febbrili, avvolgenti, arrivando (con il direttore della fotografia) ad inventarsi i kino-fows, luci fluorescenti dal forte potenziale evocativo.
Nei vuoti che distanziano i due protagonisti viaggia il cinema di Wenders, tra confusioni, solitudini, metaforici problemi di vista: e sempre di distanze, di lontananze, e dei tentativi di colmarle si costruisce il mondo dell’autore, che guarda l’America con l’occhio di un europeo fuori dalla sua cornice di riferimento.

Le coordinate codificate dalla trilogia della strada troveranno una sintesi perfetta in Lo Stato Delle Cose (Der Stand der Dinge, 1982), altro capolavoro probabilmente irraggiungibile, film che forse rappresenta la carriera del suo regista in maniera esemplare tra una prima parte lenta e introspettiva, evocativa e a tratti disturbante, e una seconda dove le situazioni e i colpi di scena si accavallano in maniera frenetica.

È un film sublime che inserisce, tra viaggi e attese, un metacinema costruito sulla suggestione delle immagini: il cammino diventa metafora per parlare del senso stesso del cinema, come se nella conversione tra sfondo (territorio) e soggetto (personaggio) anche gli uomini e le donne si mescolassero con la città, con il deserto o con qualsiasi altro luogo dove il regista ambienta i suoi film.

2. Il paesaggio nel cinema di Wim Wenders

La perfetta fusione tra viandante e percorso, ad esempio, è all’interno di Paris, Texas (id.), il film del 1984, come se l’individualità del protagonista potesse fondersi con la strada che percorre, perché l’ambiente attorno a noi è molto più incisivo e determinante di ciò che possiamo credere.

La riflessione, qui porta a riflettere sulle emozioni, sugli affetti, sul rapporto padre/madre/figlio, e alla fine sulla realtà sfuggente delle illusioni, come il riflesso nello specchio del peep-show della storia interpretata da Nastassia Kinski. Una storia nella quale, sul finale l’unico modo pere sulla strada e lasciare che sia lei a determinare il percorso, in un are che sia lei a determinare il percorso, in un percorso circolare ed eterno, un’odissea in uno spazio interiore ed esterno.

È questa la radicale idea che il cinema wendersiano sia invaso sempre dallo Spazio, l’ambiente come la matrice da cui proviene ogni azione: l’azione diventa la conseguenza dello spazio nel quale si svolge, invertendo di fatto una totale inversione dei rapporti gerarchici tra gli elementi della narrazione: le scelte dei personaggi non influenzano lo spazio esterno, non trasformano il luogo, ma al contrario i personaggi devono modellare le loro azioni in base al paesaggio che lo sovrasta.

Lo Spazio è quindi vivo, fin da Alice nella Città, e per dirla con Heidegger: l’essere è concepito come Evento, è un Essere in un ambiente con il quale non può evitare di confrontarsi.
E allora, in Paris, Texas lo spazio è il deserto, che esemplifica il vuoto, la solitudine, quel silenzio nel quale l’uomo irrompe e dal quale vuole fuggire.
Così come nel film successivo, Il Cielo Sopra Berlino (Der Himmel über Berlin, 1987) il protagonista è Berlino, decadente e incantata, che contiene i pensieri dei suoi cittadini, mentre Wenders cerca un punto di vista esterno dall’uomo per far dialogare i luoghi, le strade, nel più completo disinteresse verso una forma narrativa compiuta, dal momento che l’unica necessità è dare forma alla Storia attraverso l’immagine e il Tempo.

È in questo film che il primo periodo del regista trova il suo compimento e il suo massimo equilibrio: Il Cielo Sopra Berlino trova la giusta misura tra la necessità di far parlare i luoghi (come in Falso movimento o Lo Stato delle Cose) e la scelta precisa, volontaria, di un punto di vista soggettivo che non coincide con la realtà oggettiva, (come accadrà in maniera fin troppo enfatica in opere successive, ad esempio Pina o Il Sale della Terra).

3. L’immagine nei film di Wim Wenders

Il 1991 vede uscire al cinema Fino alla Fine del Mondo (Bis ans Ende der Welt): film fluviale, imponente, pletorico forse, di certo il film più ambizioso del regista tedesco, altrettanto certamente opera fondante e fondamentale dimostrato da suo essere (stato) divisivo, tra chi lo considera un fallimento e chi invece un capolavoro.

La realtà probabilmente sta a metà strada, perché Until The End of The World (titolo internazionale) è faraonico quanto irrisolto per alcuni versi, ma innegabilmente affascinante, opera gigantesca capace di mettere ancora oggi i brividi.
Basta dire che l’assunto dell’opera è che il mondo è un’illusione creata dalle forme e dai colori che l’uomo manipola a sua immagine e somiglianza, illusione che non può essere riprodotta tecnologicamente se non annullando la stessa natura umana: insomma, purisimo Wenders all’ennesima potenza per 279 minuti (per la director’s cut; invece “soli” 158 nella versione per la sala, 179 per la versione europea), che racconta il viaggio di due innamorati intorno al mondo, ma ruotando intorno allo stesso punto di incolmabile, lacerante vuoto interiore.

C’è poco da dire su quanto Wenders ci abbia visto lungo su dove stava andando il rapporto triangolato tra uomo, immagine e comunicazione, perché Fino alla Fine del Mondo è paurosamente profetico nel suo imperversare di videofonini, dispositivi tecnologici di uso comune e ossessione per la riproducibilità delle immagini anche e soprattutto in relazione alla loro soggettività/oggettività.
Vedere un’immagine non è vivere, e questo era sinistramente vero trent’anni fa come lo è incredibilmente ancora oggi, soprattutto nell’ottica del cambiamento nella fruizione delle immagini che l’evoluzione tecnologica ha portato con sé.  

Fino alla Fine del Mondo è Wim Wenders al suo massimo, all’apice del suo pensiero, nel momento in cui è “espressione dell’inattualità del movimento nello spazio, perché si può girare intorno al mondo senza allontanarsi dal punto di partenza”.
E ancora, è anche (semplicemente) uno straziante film d’amore, insomma una pellicola davvero vertiginosa capace di contenere mondi e personaggi e significati che sopravvivono al film stesso.

4. La Parola

Come capita quasi sempre, ad una vetta altissima deve succedere poi una discesa, più o meno veloce. In questo modo, il seguito di Il Cielo Sopra Berlino è svogliato e senza ispirazione (Così Lontano, Così Vicino, In weiter Ferne, so nah!, 1993), così come è incontrovertibilmente un’operazione di svolta, l’inizio di un ripiegamento su sé stesso e sulle proprie teorie che continuerà per tutto il decennio successivo (da Crimini Invisibili, The End of Violence, 1997; a The Million Dollar Hotel, 2000) puntellato qua e là da piccoli film che evitano il completo tracollo espressivo (Lisbon Story, 1994; Buena Vista Social Club, 1999): probabilmente perché dopo aver raggiunto vette espressive fortissime, Wenders si improvvisa o si sente narratore intellettualmente compiaciuto, mentre insegue inconsciamente o meno, le caratteristiche del suo cinema primigenio riuscendo però solamente a crearne un calco sbiadito.

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Forse Palermo Shooting rappresenta una prima avvisaglia di ripresa, anche se ugualmente a Non Bussare alla Mia Porta o La Terra dell’Abbastanza, è purtroppo un cinema preoccupato del suo dissertare su temi filosofici ed esistenziali: come la vita che si rispecchia nelle immagini con un discorso però esemplificato da semplici associazioni poetiche. E allora opere dove domina la parola, il discorso, il concetto, senza mai riuscire a fondersi o a farsi immagine.

In questo solco, Ritorno Alla Vita (Everything Will be Fine, 2015) rappresenta una sorta di ripresa di interesse: fermo restando l’interesse quasi ossessivo per l’immagine, il lungometraggio si costruisce su ellissi vertiginose, temporali e narrative ed emotive. E poi, Wenders usa il 3D evitando il ricorso allo stupore, tentando invece di lavorare per sottrazione e fondere la tecnica ad un certo disorientamento emotivo. Ci sono poi la paternità mancata, il rapporto complesso e irrisolto tra arte e vita. Quello che però in teoria sembra un film raggelato sulle solite istanze astratte, un’esposizione museale, un’opera dimostrativa, in pratica diventa una storia che vive su pulsioni sotterranee, producendo emozione attraverso la resistenza all’emozione.

5. Wim Wenders oggi

Quindi anni tra Alice nella Città e Fino alla Fine del Mondo; quindici tra questo e Submergence (2017).
Mettiamola così, mutuando la numerologia, per vedere la carriera di Wenders divisa in questi due grandi epoche. E che ricomincia proprio da Submergence, straordinario eppure esilissimo, costruito ancora una volta con passione e intelligenza su raccordi filosofici di situazioni e sguardi che sfidano il tempo e lo spazio.

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Allora diventa un film profondamente, nuovamente, felicemente wendersiano quando ritrova e ripropone le immagini come un movimento obbligatorio per plasmare la realtà con la forma delle dimensioni interiori: un cinema che sa essere ancora tempo sospeso e dilatato, immobile in un frame che riprende saturo suggestioni così lontane eppure così vicini, da Malick a Ray fino a Resnais.
Anche Perfect Days, presentato a Venezia 2023, è di nuovo un film semplicemente bellissimo.
Un film che nasce da quegli umori che svelano il personaggio tramite il paesaggio, che ritrovano il senso della vita nelle inquadrature delle città, dei suoi tetti e delle sue strade; un film che è intriso di un’idea di cinema ancora una volta, finalmente, radicale, che non ha paura della sua lentezza.

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