Strade perdute: analisi e significato del film di David Lynch

Per il breve ritorno di Strade perdute al cinema, tenteremo di delineare alcuni spunti interpretativi

Uno degli oneri che si è assunta la Cineteca di Bologna è quello di restaurare, tradurre in 4K e portare nuovamente sul grande schermo alcuni classici del cinema. Fra questi c’è il film del 1997, Strade perdute, diretto da David Lynch. A partire da lunedì 16 gennaio 2023 il film, infatti, torna al cinema, per tre giorni.

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La pellicola in questione rimane tutt’oggi uno dei film più rappresentativi della poetica lynchiana, nonché uno di quelli di più difficile comprensione. Visivamente Lynch crea una trama di fitti riferimenti a un immaginario visivo, già elaborato in titoli come Eraserhead – La mente che cancella (1977), Velluto blu (1986) o Cuore selvaggio (1990). Troviamo, da un lato, la periferia fatta di architetture geometriche e inquietanti, reminiscenti del costruttivismo sovietico, in cui la struttura della casa borghese si configura come una sorta di prigione, atta a ingabbiare l’individuo in una realtà quotidiana opprimente. Dall’altro, però, viene inscenata anche l’idea idillica della vita suburbana americana, figlia dell’ottimismo degli anni cinquanta, con le casette monofamiliari tutte uguali, i prati curati e le staccionate bianche. Gli attori recitano, per tutta la prima parte del film, in una sorta di stato di trance, in maniera meccanica, come già accadeva nella serie, ideata dal regista insieme a Mark Frost, I segreti di Twin Peaks (1990-91). L’atmosfera generale è quella di un’angoscia opprimente, di una suspense mai soddisfatta, generata da inquadrature che si soffermano più a lungo del dovuto su certi elementi geometrici o che indagano le ombre degli spazi cavi delle abitazioni. Lynch fa un uso creativo dell’immagine sfocata e utilizza tempi narrativi dilatati o accorciati, per restituire agli spostamenti dei personaggi nello spazio e nel tempo, una natura quasi onirica. Nella seconda parte del film invece il ritmo è frenetico e il montaggio si fa più veloce, mentre la narrazione si affida sempre di più ai cliché narrativi del neo-noir iperrealista degli anni novanta. La texture visiva di ogni immagine appare complessa e fortemente materica, grazie a un’illuminazione che mette in risalto il valore quasi organico degli elementi del decòr, rimandando, da un lato, all’iperrealismo astratto delle immagini all-american di Hopper e, dall’altro, all’astrazione organico-materica dell’opera di Bacon.

Strade perdute: un neo-noir postmoderno

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La storia raccontata è quella di Fred (Bill Pullman), sassofonista geloso e impotente, ossessionato dalla moglie Renee (Patricia Arquette), una donna attraente, sfuggente e misteriosa.
Un giorno Fred risponde al citofono e una voce annuncia che “Dick Laurent è morto”. Fuori dalla porta però non c’è nessuno. In seguito Fred e Renee ricevono, via posta, una videocassetta che riproduce un video dell’esterno della loro abitazione. L’evento inquieta la coppia, ma solo dopo il ritrovamento di un nuovo video, in cui appaiono l’interno della casa e Fred e Renee addormentati, i due si rivolgono alla polizia.

Qualche giorno dopo, a una festa nella villa di Andy, un losco amico di Renee, Fred incontra uno strano uomo in nero, dal trucco cadaverico, legato a Dick Laurent, che sostiene di trovarsi in quell’esatto momento a casa del sassofonista. A riprova di ciò, egli invita Fred a telefonare a casa con un cellulare ed effettivamente l’uomo del mistero gli risponde. Nel frattempo Renee si è ubriacata. Fred, sempre più geloso, riporta a casa la donna. Prima di entrare controlla l’appartamento, ma non trova nulla. Dopo esser entrato in casa con la moglie, l’uomo inserisce una nuova videocassetta nel registratore e le immagini mostrano una sorta di soggettiva della camera da letto della coppia e Fred ricoperto dal sangue della moglie, fatta a pezzi. Quest’ultima inquadratura, da immagine video diventa immagine filmica. Da questa scena si passa a una in cui Fred è interrogato dalla polizia. Viene poi processato, condannato a morte per l’omicidio di Renee e incarcerato. L’uomo soffre di mal di testa cronici e, un giorno, a seguito di un malessere più forte del solito, scompare letteralmente dalla sua cella, per lasciare, al suo posto, il giovane meccanico Pete, il quale viene, ovviamente, rilasciato.

Da questo momento in poi Lynch racconta la storia di Pete (Balthazar Getty), che viene sedotto da Alice (di nuovo Patricia Arquette), la donna del boss criminale Mr. Eddy (Robert Loggia), noto anche come Dick Laurent. Alice è una copia bionda di Renee, sessualmente aggressiva e palesemente invischiata nella pornografia illegale gestita da Mr. Eddy. Dopo una serie di vicissitudini Pete e Alice rapinano la villa di Andy, amico anche di Alice, uccidendo l’uomo per errore. A questo punto la coppia si dirige nel deserto e dopo aver fatto l’amore, la donna sussurra all’orecchio di Pete che lei non sarà mai sua. Pete si trasforma nuovamente in Fred, mentre Alice scompare. Dopo un breve incontro con l’uomo del mistero “armato” di videocamera, Fred si dirige al Lost Highway Hotel, dove scopre Mr. Eddy a letto con Renee. L’uomo aspetta che la moglie vada via e poi affronta il gangster, lo stordisce e lo trasporta nel deserto. Qui durante il final showdown, con l’aiuto dell’uomo del mistero comparso all’improvviso, uccide Mr Eddy.

L’epilogo del film vede Fred citofonare a casa sua e pronunciare la frase “Dick Laurent è morto”, per poi fuggire lungo l’autostrada californiana, inseguito dalla polizia.

Strade perdute. Il cinema di Möbius. Ovvero del cinema come ri-creazione della realtà

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Era necessario dilungarsi sulla sinossi del film, poiché la pellicola presenta una struttura narrativa molto particolare. Minuz, seguendo le indicazioni dello stesso Lynch, sostiene, nel volume curato da Bertetto, David Lynch (Marsilio, 2008), che il racconto abbia un andamento simile a quello del nastro di Möbius. Quest’ultimo, come è noto, definisce una superficie che si può percorrere all’infinito e che contraddice il principio che vuole tutte le superfici piane dotate di una doppia faccia. Dunque il paradosso della struttura narrativa del film non coinciderebbe con quello di una struttura ciclica per cui l’inizio è la fine e viceversa, quanto con un dipanarsi della narrazione su sé stessa, rendendo impossibile la distinzione fra esterno e interno, cioè fra rappresentazione dei fatti e loro reinterpretazione filtrata dalla soggettività del protagonista.

Effettivamente non vi sono elementi visivi chiari che permettono di distinguere le due modalità narrative, realistica e soggettiva/allucinatoria. Quando, per esempio, Pete compare al posto di Fred, tutto avviene in maniera letterale, attraverso espedienti visivi come la sfocatura del protagonista, l’inserzione di frammenti visivi, che creano un cortocircuito spazio-temporale o l’alterazione delle luci diegetiche. Questo cambiamento viene riconosciuto “oggettivamente” anche dagli altri personaggi, sancendone lo statuto di evento reale all’interno della diegesi. D’altronde se la differenza fra esterno e interno si interpreta come quella fra un campo e un fuoricampo impossibili, sempre secondo l’analisi di Minuz, essa finisce per indicare la marca di una compresenza dello stesso personaggio nel campo e nel fuoricampo – Fred che consegna il messaggio vocale a sé stesso, l’uomo del mistero che davanti a Fred, alla festa, gli parla da casa sua. Tale compresenza risulta un artificio narrativo che sottolinea l’impossibilità del testo filmico di chiudersi in una logica progressione causale. Siamo insomma davanti a un narrazione che stabilisce l’impossibilità di traslare una serie di fatti (i presunti tradimenti di Renee e il suo omicidio per mano di Fred, ma anche il cambiamento di identità) in un racconto compiuto che doni senso logico alle azioni. Riecheggiando l’affermazione di Fred che odia le videocamere perché preferisce ricordare le cose nel modo in cui le ricorda e “non necessariamente nel modo in cui sono avvenute”, il film ci introduce esattamente all’interno di un processo di ri-creazione della realtà a partire dalle fantasie soggettive del protagonista.

Da questo punto di vista sono esplicative le videocassette che sprofondano la coppia nell’angoscia: le riprese riproducono tutte una sorta di controcampo di alcuni sguardi di Fred, prima diretti all’esterno della casa, poi all’interno e infine su sé stesso dopo l’uccisione della moglie. Il video a differenza del cinema si fa indice di una realtà oggettiva, che viene negata dalla soggettività creativa del protagonista. Di conseguenza il cinema rappresenta, nella visione di Lynch, quel dispositivo in grado di reinserire l’esperienza del reale, o meglio il ricordo di tale esperienza, all’interno di nuove strutture significative, generate dal soggetto e non per forza improntate sulla razionalità del principio di causa-effetto.

L’uomo del mistero, in una simile prospettiva rappresenta allora una sorta di principio di conoscenza, fredda, assoluta e meccanica come la videoripresa di un reality. Egli ha il compito di mettere davanti alla realtà, l’identità autorappresentata (attraverso il cinema) del soggetto postmoderno (Fred, ma anche lo spettatore) in preda a una crisi epistemica, scatenata dalla consapevolezza di non poter mai soddisfare l’impulso vitale al godimento pieno e totale della vita. Egli lo può solo desiderare in eterno, inserito in un meccanismo sociale fatto di produzione e consumo: Fred vorrebbe soddisfare sessualmente Renee e così il suo stesso desiderio di possesso dell’Altro femminile. Ma il tentativo di esperire il godimento, la vita nella sua realtà, non gli riesce. L’uomo può solo lavorare, cioè trasformare la musica, l’arte/sublimazione del godimento, in un prodotto da consumare, al fine di continuare a poter tornare nel suo appartamento in periferia e a vuoti eventi sociali. Egli è, per di più, circondato da stimoli sessuali sempre insoddisfatti, che pongono l’Altro femminile nella posizione di motore immobile e irraggiungibile di una vita vuota – la canzone presente nella colonna sonora del film, The Apple of Sodom di Marilyn Manson, parla proprio di questo.

L’incombere del Reale in Strade perdute

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In altre parole, l’identità in crisi è messa davanti alla vita quotidiana, privata dei filtri delle costruzioni narrative che il soggetto adopera per poter venire a patti con la natura profonda di questa realtà. Cioè con quello che, nella sua lettura lacaniana del film, Žižek descrive come il Reale. Semplificando molto, il filosofo – si rimanda per un approfondimento al suo saggio, The Art of the Ridiculus Sublime. On David Lynch’s Lost Highway (2000) – intende questo Reale come quell’elemento irraggiungibile e inconoscibile, una sorta di noumeno kantiano, fatto di pulsioni violente e spinte libidiche, che informa tutta la realtà quotidiana.

Secondo una simile lettura la sostituzione di Fred con Pete, e l’identità fisica di Renee e Alice, rientrano all’interno di un processo di figurazione di quei meccanismi psicologico-narrativi, messi in atto dal soggetto/Fred per venire a patti con la realtà quotidiana e proteggersi dalla natura perturbante del Reale. In particolare, nel film, tali meccanismi si configurano come fantasie derivate dai cliché del cinema noir. Pete è il classico uomo ingenuo che cade vittima di una femme fatale, la quale lo trascina fuori dal regno della normalità/realtà e dentro quello abietto e sregolato del Reale, esattamente come accadeva a personaggi quali il Cristopher Cross (Edward G. Robinson) de La strada scarlatta (Lang, 1945) o il Fred – nome anche della precedente incarnazione di Pete – de La fiamma del peccato (Wilder, 1944). Siamo insomma davanti a una rielaborazione giovanilistica, postmoderna e rock di figure tipiche del noir classico – le vicende del giovane sono scandite dalle note di gruppi come i Rammstein, gli Smashing Pumpkins e il già citato Manson.

Dalla femme fatale Phyllis Dietrichson (Barbara Stanwyck), protagonista proprio della pellicola di Wilder, è tratto il look sia di Renee, che soprattutto di Alice. Renee rappresenta la versione classica della donna fatale, la donna misteriosa, caratterizzata dall’ambiguità morale, che lentamente trascina a fondo gli uomini che ne incrociano il cammino. Ma nel fare ciò, la donna diventa causa della sua stessa rovina – Renee infatti viene uccisa. Questa figura, secondo Žižek, nella sua sfida alle convenzioni della società patriarcale, finisce per assurgere al ruolo di vettore dello sfogo di pulsioni sessuali represse dell’uomo, funzionale proprio a mantenere l’ordine sociale. Alice invece è una versione postmoderna della femme fatale e in linea con le reinterpretazioni del cinema degli anni 90, esibisce apertamente la propria natura crudele e manipolatrice, senza doverne pagare il prezzo – Alice scompare infatti dopo l’uccisione di Laurent. Entrambe le donne in realtà non rappresentano altro che le due facce delle fantasie maschili (e maschiliste) di Fred/Pete, il quale, invece di affrontare la crisi della propria soggettività e quindi l’incombente incontro con l’orrore derivato dal Reale, preferisce nascondersi nelle stesse narrazioni psicologiche che fino al momento di rottura – l’apparizione delle videocassette e dell’uomo del mistero – gli avevano permesso di tollerare la realtà quotidiana.

In questa dinamica Dick Laurent/Mr. Eddy, nella tradizione di personaggi lynchiani come Bobby Peru (Cuore selvaggio) e Frank Booth (Velluto blu), si configura come un surrogato dell’autorità paterna, che riesce a godere a pieno della natura libidica e violenta del Reale e dunque può imporre agli altri le regole cui devono sottostare, per poter continuare a sopravvivere nella realtà – non potendo, a differenza sua, le persone comuni come Fred/il soggetto postmoderno/ lo spettatore, tollerare il contatto con l’inafferrabile Reale.

Alla luce di questa interpretazione allora la spiegazione che la Arquette dà del film, confermata dallo stesso Lynch nel volume a cura di C. Rodley, David Lynch. Io vedo me stesso. La mia arte, il cinema, la vita (Il Saggiatore, 2016) per quanto corretta, non può essere considerata l’unica possibile: Strade perdute si può anche leggere come la storia di un uxoricida impotente, che non sopporta ciò che ha fatto e che quindi si rifugia in un’allucinazione noir che lo vede giovane e desiderato dalla figura sublimata della donna amata, salvo poi trasformare anche questa allucinazione in un incubo, a causa delle sue paranoie e insicurezze. Ma solo a patto che questa stessa lettura appaia come parte di un meccanismo di significazione perpetua, in cui essa rappresenta una delle innumerevoli strade (perdute) che i simbolismi, sia quelli qui analizzati, che quelli tralasciati – un esempio per tutti è il ritorno dell’autostrada come simbolo della strada di mattoni dorati di Oz – suggeriscono.

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