Perché Pinocchio di Del Toro è il miglior adattamento della fiaba di Collodi

Inutile girarci troppo intorno: Pinocchio di Guillermo Del Toro è il miglior adattamento della fiaba di Carlo Collodi. Il segreto? Non è un adattamento, non si pone con riverenza e timore al cospetto di quelle pagine che videro la luce, per la prima volta, nel 1883. Del Toro quelle righe le ingurgita a colazione e quelle pagine le strappa via per renderle giunture di una storia che sappia parlare al mondo d’oggi, vestendosi del suo stile, sviscerando i canoni del suo cinema fantasy alimentato da mostri e magia, dalla lotta tra la vita e la morte, dalla follia, dalla perdizione e da quel naturale senso di fine. Che è triste, lo sappiamo, ma tremendamente umano.

In un contesto in cui il volto del burattino di legno ci è stato proposto in tutte le salse, con la buonista ombra disneyana pronta ad assassinare tutto il resto, è lecito storcere il naso alla notizia di un nuovo lungometraggio ispirato a una delle più grandi opere della letteratura italiana. Il naso, però, si allungherebbe e non poco, se non ammettessimo sinceramente che Guillermo Del Toro ha avuto il coraggio di osare, regalandoci questo film così politico, così artigianale, così sfacciatamente reale. Pinocchio, disponibile su Netflix dal 9 dicembre 2022 dopo un fugace passaggio in sala, non fa prigionieri, non ci risparmia nulla. E ribalta la storia a suo piacimento, distorcendola parzialmente ma senza snaturarne il significato principe, l’unico che vale la pena salvaguardare e cioè che Pinocchio, favola italiana per eccellenza, legata a un determinato periodo storico e ad altrettanti insegnamenti di carattere morale e pedagogico, sia in realtà un canovaccio in cui ogni bambino e adulto può ritrovarsi, in qualsiasi terra e in qualsivoglia epoca e nel quale ogni autore può esprimere la sua poetica.

Pinocchio è l’opera di tutti

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Guillermo del Toro’s Pinocchio – (Pictured) Pinocchio (voiced by Gregory Mann). Cr: Netflix © 2022

Si pensi, a tal proposito, allo sterminato mondo teatrale, in cui l’avventura collodiana ha attecchito in modi talvolta sovversivi e fantasiosi, annichilendosi fino a scomparire, salvo poi assurgere all’unico scopo per il quale era stata scritta: insegnare a guardarsi dentro, ad avere rispetto per chi ci ha messi al mondo, a saper usare al meglio le seconde occasioni e, ancora, l’importanza dell’onestà, dell’istruzione, della fiducia mal riposta.
Poco importa, allora, se quel lungo naso sia posto sul volto di un bambino africano (il Pinocchio Nero di Marco Baliani) o se funga da tramite per la liberazione “dell’Io tirannico della rappresentazione” (Carmelo Bene), ciò che conta è che quella storia ha trovato margine di fiorire ancora, in un tempo diverso da quello in cui è stata concepita, in una cultura che sulla carta non gli appartiene. Quella storia è viva: ha cambiato accenti, acconciature, parole, ma è rimasta intatta e intoccabile nel substrato inconscio del suo essere parabola di vita.

La grandezza di Guillermo Del Toro, allora, sta nel fatto di aver fatto al cinema ciò che di solito si fa a teatro: architettare un’improvvisazione minuziosamente organizzata che, seppur ammira l’opera madre, mostra di avere la forza di percorrere liberamente quei corridoi di paura, di infilarsi nell’intercapedine di quelle domande senza risposta e poi incontrare, finalmente e sistematicamente, quei mostri che il cineasta messicano ha imparato adagio ad addomesticare.

Per compiere questo monumentale lungometraggio non avrebbe potuto usare una tecnica d’animazione più azzeccata della stop-motion e immagini migliori di quelle di Gris Grimly (l’illustratore statunitense a cui il regista premio Oscar si è ispirato). Cos’è in fondo il Pinocchio di Del Toro se non la sintesi concreta tra marionette e umani? Cos’altro se non lo scarto di ogni essere vivente, la parte ammaccata che resta e resiste al dolore, facendo gli anticorpi alla solitudine tramite la creazione?
I fotogrammi messi a punto dal regista cercano spasmodicamente l’imperfezione, incuneandosi nelle crepe, nei trucioli, nelle stramberie di una carcassa lignea che imita la natura umana. Il burattino creato da Geppetto non tende alla perfezione artistica, egli nasce da un atto di follia, in un frangente di perdizione; è sfogo artistico del falegname, figlio della disperazione e dell’alcolismo.

La genitorialità: che storia complessa!

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Si intromette in quest’ottica il concetto di favoritismo e paragone tra i figli, che per la prima volta nella storia degli adattamenti collodiani sposta l’occhio di bue luminoso sull’atteggiamento dei genitori nei confronti della prole, piuttosto che il contrario.
Il film infatti ci mostra inizialmente il rapporto idilliaco tra Geppetto e il figlio Carlo, un bambino dolcissimo, ubbidiente ed educato, morto per colpa di una bomba lasciata cadere “per caso” sul loro paese durante la Grande Guerra. La scomparsa del figlio, il cui ultimo desiderio era quello di far germogliare la pigna raccolta (perfetta, con tutte le brattee intatte!), trasforma radicalmente le giornate di Geppetto, il quale lo seppellirà proprio all’ombra di un pino, invocando il Cielo affinché ritorni al suo fianco.

Ma non c’è nessun Dio in grado di assecondare queste preghiere. Il Dio cristiano, che è quello a cui si rivolge il falegname, certe richieste le ha sempre ignorate, attento anche lui a rimarcare che la bellezza della vita umana risiede nella sua finitudine.
Non c’è dunque da stupirsi se la creazione di Pinocchio, di un fantoccio che rievochi le fattezze del defunto Carlo, avvenga sotto la spinta dell’alcol, in un delirio di onnipotenza in cui è pressante l’accostamento con Frankenstein. Geppetto intaglia quel pezzo di legno furiosamente, con rabbia, come a voler sostituire il Creatore, con la volontà di regalarsi ciò che gli spetta di diritto.

Anche lui, come il Dio cristiano, è un padre single. Ma non cerca nessuna famiglia affidataria, non crea nessun Eden, non punisce. Geppetto vorrebbe che Pinocchio acquisisse le stesse caratteristiche di Carlo, un po’ come quei genitori che si perdono in paragoni, animati dall’idea di far adeguare i figli più scapestrati a quelli più assennati, come se i primi fossero un errore.
Ma Pinocchio è un essere a sé stante e predica la bellezza della disobbedienza, predica la libertà! In un mondo di marionette, lui trova il coraggio di essere se stesso, di affermare la sua personalità, di dire “non sono Carlo”.

E sì, un po’ come tutti noi, anche Pinocchio ha bisogno di un angelo custode, di una guida, di una coscienza che parli ad alta voce e si lasci calpestare quanto basta per farci sbagliare. E quella voce, che è anche narrante della storia, è quella di Sebastian.

Pinocchio di Del Toro e il paragone col Cristianesimo

Tuttavia, ci sono altri motivi per cui il lungometraggio Netflix può essere considerato il miglior adattamento della storia collodiana. Se già la lettura di Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino aveva portato a galla svariati riferimenti teologici, l’opera di Guillermo Del Toro non si limita ad assecondare quei parallelismi, ma addirittura li sovverte, ponendo sulla bocca della marionetta animata domande alquanto lecite, come quella del perché, nonostante sia fatto anch’egli di legno, non viene venerato come quel Gesù Crocifisso intagliato pur sempre dal padre ed esposto in Chiesa.
Si intromette, in questo ragionamento, una sottile iconoclastia, ancor più pungente se relazionata all’iniziale atteggiamento della gente del paese, che vede in Pinocchio una creatura demoniaca. Un po’ come il Frankenstein di Mary Shelley anche il burattino di Del Toro suscita terrore.

Cosa significa vivere sotto dittatura? Pinocchio: marionetta e super soldato

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Guillermo del Toro’s Pinocchio – (L-R) Pinocchio (voiced by Gregory Mann) and Count Volpe (voiced by Christoph Waltz). Cr: Netflix © 2022

È la sua diversità a spaventare, la stessa che in altre circostanze invece attrae. Perché se c’è un’altra grande intuizione che fa di Pinocchio un capolavoro essa risiede nell’aver ambientato il lungometraggio in piena epoca fascista, ovvero in quel periodo in cui non era ammessa libertà d’espressione e in cui un bambino che non ama studiare diviene non un asino da scuoiare ma un combattente votato alla patria, spogliato della sua innocenza, costretto ad abolire la paura.
Quadri che ci fanno ricordare un po’ il Jojo Rabbit di Taika Waititi ma anche la smania per la creazione del super soldato (che i cinecomic Marvel hanno espresso al meglio in personaggi come quello di Capitan America). Il fatto che Pinocchio non possa morire, infatti, lo rende un perfetto combattente, un’arma micidiale da scagliare contro il nemico.

Sappiamo che non lo sarà mai, poiché la sua storia seguirà quasi pedissequamente quella stabilita dal romanzo ottocentesco, con le dovute edulcorazioni del caso in materia di personaggi (come il Conte Volpe, in cui si condensano le iconiche figure del Gatto e della Volpe). All’interno del teatro di Mangiafuoco Pinocchio lavora e disobbedisce, questa è la sua costante: non seguire le regole imposte, storpiare una canzone che avrebbe dovuto elogiare il Duce il quale, non a caso, viene rappresentato più piccolo rispetto a tutti gli altri personaggi, insultato da un burattino che non subisce nessuna ritorsione diretta da parte del regime.

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Come dice Guillermo Del Toro parlando del suo Pinocchio, “il primo passo verso la coscienza del sé è proprio la disobbedienza”.

Trasgredire le regole è quindi l’unico modo che abbiamo per conoscerci; creando quello squarcio tra le nostre idee e il mondo esterno – con le sue ideologie, le sue paure, le sue manie – dimostriamo di avere una coscienza, di possedere un’anima, di avere il coraggio di correre dei rischi. E tutto questo solo per essere noi, per adempiere alla nostra natura, spesso ignota persino a noi stessi.

Pinocchio, dal canto suo, non sa esattamente chi è o chi vuole essere. Come tutti i bambini anche lui agisce sia secondo il principio dell’imitazione che favorendo il fluire delle sensazioni. Quando gli viene data la vita, per esempio, è profondamente conscio del fatto di essere vivo, di essere vero, ma non sa ancora destreggiarsi con le regole del mondo e dell’aldilà, prende la vita e la morte come se fossero una burla, senza accorgersi delle conseguenze.
Disobbedire è quindi tendenzialmente la sua parola d’ordine e lo è in più modi, consapevoli e non. Ciò che però lo definisce come essere umano è, in fin dei conti, la scelta. Anche il burattino di Del Toro si piega alle convenzioni del libero arbitrio, abbracciando le conseguenze delle sue decisioni. Egli non vuole essere mortale per compiacere il padre Geppetto, ma per salvarlo. Un po’ come Cristo, che si immola sulla Croce per salvare l’umanità, Pinocchio (che viene posto sulla croce da Mangiafuoco per vendetta) rinuncia all’eternità per amore.

È interessante, a tal proposito, notare come la rappresentazione del burattino non muti affatto: non diventa di carne e ossa ma resta pur sempre un pezzo di legno, solo che anche lui un giorno finirà. Perché la fine, in fondo, è lecita e naturale e Guillermo Del Toro la rimarca con cristallina naturalezza, spogliando la sua fiaba di falsità e tempi indefiniti.
“Quel che cade accade e infine ce ne andiamo” è ciò che sta alla parola fine.

Ma la fine è anche confine e sarebbe prematuro da parte nostra non parlare di quei lembi di infinito e aldilà posti all’interno della pellicola, in una rappresentazione che ci fa rimembrare le divinità dell’antico Egitto, senza farci dimenticare i capolavori firmati dalla stesso Del Toro, che nel film Netflix tornano a galla attraverso le sembianze dello Spirito del Bosco e di sua sorella Morte. L’immagine della Fata Turchina viene dunque ribaltata a favore di un essere che fisicamente ci ricorda opere come Il Labirinto del Fauno, scindendosi in due spiriti che incarnano in qualche modo due forze opposte e sovrannaturali; se la prima dona la vita liberamente la seconda aiuta Pinocchio a comprenderne il senso usando come termine di paragone il tempo e ponendo nelle sue mani la possibilità di arrestarlo, di bloccare il flusso dell’eternità per assecondare la normale temporalità.

Guillermo del Toro - Cinematographe

Guillermo Del Toro segue esattamente le orme del suo burattino e, trasponendo Pinocchio, disobbedisce al “padre” Carlo Collodi per affermare tutto ciò che fa parte del suo cinema gotico e meraviglioso. Realizza un’opera in cui può sentirsi profondamente a suo agio, capito. Allo stesso tempo, il regista messicano compie un atto d’amore nei confronti del creatore originale dell’opera: come quel pezzo di legno a cui fu data la vita anche lui rompe l’incantesimo del buonismo contemporaneo e raschia via le convenzioni per restituire a Pinocchio la sua primordiale essenza, ovvero quella del romanzo sì di formazione, ma non scritto esclusivamente per un pubblico giovanile. Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino è, di fatto, la narrazione allegorica di una società talvolta spietata e Pinocchio di Guillermo Del Toro è, per certi versi, anche questo. Una fiaba un po’ gotica, realistica quanto serve, sdolcinata quanto basta, fatta di esseri fantastici, imperfetti, scalfiti dall’esistenza. È un’opera spigolosa e dura, ma morbida e affettuosa all’occorrenza; un film fatto di vita e magia.