Editoriale | Paolo Sorrentino e la sua estetica eticizzante

L’estetica è sempre etica per Sorrentino, il simbolo è lo scrigno di un’intuizione spirituale sulla vita, un’intuizione che tanto più è incorporea quanto più viene sontuosamente tradotta in corpo dal genio del regista.

Nel 1991 Paolo Sorrentino aveva ventuno anni e scriveva a Massimo Troisi chiedendogli di prenderlo a lavorare con sé come aiuto o assistente alla regia. Allora colui che sarebbe diventato premio Oscar per La grande bellezza studiava ancora Economia e Commercio, ma solo gli aspetti teorici della disciplina, così come confessava nella missiva conservata al Teatro dei Dioscuri al Quirinale, lo interessavano. Il suo sogno era uno solo: il cinema. “Spero molto in una sua risposta, negativa o positiva che sia, e mi auguro di poter fare cinema piuttosto che lavorare in qualsiasi altro campo con la mia futura laurea in Economia e Commercio“: terminava così il giovane Paolo Sorrentino la sua epistola, prima di inserire i saluti finali di rito. Oggi quel ragazzo che si avviava a terminare i suoi studi ma desiderava fare della sua passione un lavoro è uno dei registi italiani più importanti e rispettati a livello internazionale, vera e propria leggenda vivente del cinema.

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Paolo Sorrentino - Cinematographe.it

I due papi sorrentiniani: John Malkovich e Jude Law

Le sue ‘sorrentinate’ continuano ad essere irrise da più d’uno, ma nessuno può negare che sia l’autore con il graffio espressivo più riconoscibile nonché l’artista più coraggioso del nostro cinema. Felliniano irriducibile, secondo alcuni si disinteressa al reale per stordirci in modo più acrobatico che intelligente coi suoi sogni, le sue visioni, i suoi simboli astrusi. Tuttavia, per Sorrentino non c’è cinema al di fuori di un universo poetico autonomo e in se stesso intelligente, un universo che genera i suoi codici e le sue immagini in modo autosufficiente per spogliare la realtà delle sue distrazioni e restituirle una verità che tanto più è nuda quanto più appare abbigliata. Basti guardare The Young Pope e The New Pope in successione: di fatto, nonostante, la segmentazione in episodi e due capitoli, si tratta di un lungo flusso filmico. Lì l’allestimento è dei più sfarzosi: il lusso è estremo, la ritualità esasperata, i feticci del potere pontificio innumerevoli e abbaglianti. Eppure, la carcassa è nuda. I due papi, interpretati da Jude Law e John Malkovich, sono attraversati dal mistero imprendibile di dio – un dio che non è solo il dio cristiano, ma il senso di sacralità enigmatica di cui vibra ogni esperienza vitale, anche la più meschina – e il loro abbandono all’inspiegabile si esalta nel contrasto con il fasto che li circonda.

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L’estetica è sempre etica per Sorrentino, il simbolo è lo scrigno di un’intuizione spirituale sulla vita, un’intuizione che tanto più è incorporea quanto più viene sontuosamente tradotta in corpo dal genio del regista. Il suo cinema è un cinema di traduzione di quel che non si può dire o mostrare in ciò che è sovra-detto e sovra-mostrato, in un banchetto opulento di personaggi inquietanti e indecifrabili, di creature semi-mitologiche, di animali, di deformazioni dell’umano più o meno accentuate. La parola, tra i suoi personaggi, è spesso oracolare, sospesa, comunica attraverso torsioni ed obliquità, invita a spostare il punto di vista, ad abbandonare ciò che si crede di sapere su di sé e sul mondo.  

Sorrentino, traduttore di intuizioni metafisiche in corpi che vivono nell’immagine

Il finto Maradona di ‘Youth’

C’è in Youth, suo lungometraggio del 2015, una sequenza in cui un finto Diego Armando Maradona palleggia col fiato corto: il pibe de oro, una delle poche icone ossequiosamente venerate da Sorrentino, è rappresentato come grasso e stanco, ma ancora capace di generare la magia con un solo tocco di piede. L’amplificazione – nel film Maradona è più grasso di quanto non sia mai stato; più appesantito di quanto mai potrà essere – è funzionale alla sottolineatura simbolica, è trasposizione metaforica di un concetto semplice ma indicibile, di una verità sull’essere intuita che solo il linguaggio immaginifico può materializzare: il talento è un demone incomprensibile che alberga in alcuni e in altri no, e vi alberga eternamente, senza che questo privilegio (o questa dannazione) possa spiegarsi mai.

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Il tempo passa e il corpo decade, le carni diventano macigni e la deambulazione si affatica, ma il miracolo a cui può dar vita un solo piede che si muove e fa roteare la palla resta un enigma intatto. Sorrentino si fa allora collezionista di miracoli, raccoglitore di enigmi, traduttore di intuizioni in segni, di epifanie in visioni: interpreta i sogni, li sottrae alla dimensione del non-vero per disvelarne la loro intima verità. Ci dice che reale è solo il simbolico, vero solo il sognato, umano solo il sovra-umano, quello scarto di senso di cui non ci accorgiamo ma che l’occhio del regista – che vede più in là dello spettatore – coglie e conserva per noi. Per (semi)citare lo stesso maestro, hanno tutti ragione, ma Sorrentino un po’ di più.