Morte Brittany Murphy: il mistero che infesta ancora Hollywood

La morte di Brittany Murphy è una ferita che puzza ancora di verità non dette.

“I suoi occhi erano infossati, sembrava così triste. Non era più la stessa”, raccontò un truccatore dell’ultimo set. “Se continui a dare e dare, perdi te stessa”, disse lei. Parole che oggi suonano come una macabra profezia: la morte di Brittany Murphy, il 20 dicembre 2009, resta uno dei misteri più neri di Hollywood. Dietro quel sorriso da ragazza d’America covano ancora domande senza risposta. Ma quel mistero comincia prima, negli angoli di una vita segnata male fin dall’inizio.

L’infanzia di Brittany Murphy: una porta sempre aperta

La morte di Brittany Murphy è un mistero che infesta ancora Hollywood - Cinematographe.it

Brittany Anne Bertolotti nasce nel New Jersey il 10 novembre 1977, in una casa dove la porta di ingresso è più un confine che una protezione. Suo padre, Angelo Bertolotti, è legato con la piccola mafia e sparisce già durante la sua infanzia.
C’è Sharon, la madre, un passato da hippie e un’ossessione: nessuna seconda possibilità. La bambina deve diventare qualcuno. Niente case fisse, solo stanze in affitto, valigie fatte e disfatte tra New Jersey e Atlanta. A nove anni Brittany sale su un palco per musical locali, da Les Misérables a Really Rosie. A dodici ottiene ruoli minori in spot e sitcom: Un professore alle elementari, Blossom, Sister, Sister.

Pause? Nessuna. Il senso di responsabilità la schiaccia subito. Piani di riserva? Un lusso. Madre e figlia piantano la loro tenda a Hollywood e – pronti via – i casting director la notano. Brittany non ha il viso da copertina, ma porta sullo schermo uno sguardo da ragazza sveglia all’alba dopo una notte di sogni agitati. Funziona.

A diciotto anni Clueless la rende icona involontaria degli outsider: presta il volto a Tai, la nuova arrivata, timida e sghemba, riflesso di milioni di ragazzine. Amy Heckerling, regista del film, dirà anni dopo: “Non recitava Tai, lo era. Genuina, persa, dolce: la ragazza che volevo”. Ricoperta da mille attenzioni, Brittany fa quello che le riesce meglio: lavorare. In Ragazze interrotte è Daisy Randone, la solitaria con un segreto in tasca. In Don’t Say a Word sussurra una battuta gelida — “I’ll never tell…” — che resta appesa più di quanto la fabbrica delle illusioni sopporti.

Tra una commedia come Just Married con Ashton Kutcher e un ruolo in Sin City, Brittany entra anche in una cabina di doppiaggio: per anni regala voce a Luanne in King of the Hill, biondina ingenua e persa a modo suo. Poi il salto in una hit dance: Faster Kill Pussycat con Paul Oakenfold la spinge nei club, mentre Hollywood la spreme per la commedia.
Da fuori sembra inarrestabile. 8 Mile al fianco di Eminem la riporta al centro, Uptown Girls la trasforma di nuovo. Ma dietro le luci qualcosa scricchiola. Gli studi la vogliono diversa: più magra, più bionda, più perfetta. Brittany si svuota pur di non scendere dalla giostra. E lì Monjack scava la sua tana.

Il marito di Brittany Murphy: bugie, controllo e declino

Gli amici provano a fermarla: le portano prove, carte, vecchie denunce. Urla nel vuoto. Simon Monjack entra in casa, scollega telefoni, licenzia agenti, taglia fuori tutti. Diventa l’unico specchio in cui Brittany si guarda. Un’ex compagna, madre di un figlio che non scoprirà mai, muove accuse di ricatti e bugie seriali. Chi vuole Brittany passa da lui.
Intanto lei perde pezzi di sé. Le guance si svuotano, le ossa spingono contro un trucco sempre più pesante. “Sembrava Bambi: ginocchia molli, occhi vuoti, capelli sporchi”, dirà anni dopo chi l’ha seguita nell’ultimo set. Murphy taglia corto: stress, dicerie inventate. Monjack la difende, rovescia accuse su registi ingrati, paparazzi a caccia di briciole.

Pochi mesi prima di morire Brittany viene cacciata dal luogo di lavoro. Monjack si presenta ubriaco, blocca la troupe, la produzione la scarica. Restano murati in casa, luci accese di notte, blister sparsi: qualcosa per dormire, qualcosa per svegliarsi, qualcosa per spegnere il rumore. Accanto al letto: novanta flaconi, alcuni intestati a nomi di altri. Farmaci a tappeto, confusione totale. Nessuno riesce più a entrare. A Porto Rico, il colpo finale: set da quattro soldi, Monjack ubriaco, Brittany fuori dal film, virus in valigia.

La causa della morte di Brittany Murphy

Brittany Murphy torna a Los Angeles con un raffreddore che sfocia in polmonite. Secondo una ricostruzione contestata, Brittany non crolla subito in bagno. Prima la trovano sul patio, piegata a terra: “Mummy, I can’t catch my breath. Help me. I’m dying. I love you”, sussurra tra colpi di tosse. Stando a un vecchio racconto di famiglia, prima di alzare il telefono la madre di Brittany Murphy, Sharon, e Monjack provano a rianimarla da soli, seguendo le istruzioni del 911.
La madre chiama aiuto, invano. Quando arriva in ospedale è già tardi. Il referto è glaciale: la polmonite è devastante, l’anemia — alimentata anche da cicli di sangue perso — basta a ucciderla. Zero droghe pesanti: solo farmaci da banco, sonniferi, sciroppi. Un letto d’ospedale non arriva mai.

Il padre, Angelo Bertolotti, diffida delle ricostruzioni. Fa analizzare un ciuffo di capelli: bario, metalli pesanti, voci di veleni per topi. Ma la Contea chiude: colpa di tinte, lacche, niente prove dirette, nessuna riapertura.
Cinque mesi dopo Monjack muore nello stesso letto. Stessa diagnosi, stesso epilogo. In vita era già un fantasma: debiti ovunque, truffe non chiuse, carte rubate, sfratti a catena, visto scaduto. Ormai 136 kg, gonfio di cognac e farmaci, crolla mentre Sharon non smette di respirargli accanto. Un’apparizione surreale da Larry King inchioda l’immagine: due fantasmi in diretta, privi di vie di fuga.

Restano frammenti: Brittany appoggiata a un camper con lo sguardo perso, qualche intervista spezzata. I giornali ripescano foto ogni anno, forum e podcast riaprono la ferita. Dietro quella porta chiusa, un nome divora ancora voci. E una speranza, incisa nel sangue: che attraverso la ricerca personale, “altri riescano a ritrovare sé stessi”.