Kantemir Balagov: il nuovo sguardo del cinema dell’Est

Kantemir Balagov, il cineasta classe 1991 allievo di Sokurov che ha di recente fatto parlare di sé dopo le sue partecipazioni a Cannes.

Nel soleggiato e tranquillo maggio del 2017 vari fonti hanno testimoniato sotto giuramento l’arrivo di UFO, un oggetto non identificato, sugli schermi del Un Certain Regard del 70esimo Cannes.

La ricostruzione dei fatti ci dice che davanti agli spettatori si sono presentati improvvisamente dei titoli di testa artigianali, rudimentali, addirittura arcaici, incorniciati in una inquadratura in 4:3 e accompagnati dal più classico dei silenzi assordanti. Lo stupore ha cominciato però a diffondersi nella sala solo nel momento dell’apparizione di una prima scena quasi troppo canonica per quel tipo di introduzione, dalla cui durata però gli spettatori hanno tratto un certo senso di sollievo: è solo un film. Non si è certi se siano state le successive inquadrature simil-amatoriali di un viaggio in macchina o la musica tradizionale russa, ma in un certo senso quel non so ché di incerto è tornato negli occhi di tutti, quando, all’improvviso, è comparsa la scritta:

Mi chiamo Kantemir Balagov e sono un cabardo.

Il film è Tesnota, l’opera prima del giovanissimo astro nascente del cinema russo, per il quale vincerà il premio FIPRESCI, e il modo che sceglie per introdurci al suo lavoro è metodico, studiato, analizzato, voluto. Consapevole, per farla breve. Questo film, come il suo secondo, è un viaggio attraverso la storia, in cui si racconta il passaggio traumatico tra una generazione e l’altra con uno sguardo, per così dire, obliquo: interno ed esterno a seconda delle situazioni, ma, cosa certa, mai lasciato al caso.

Il secondo lavoro di Balagov è Dylda (o La ragazza d’autunno per noialtri), altro FIPRESCI e miglior regia, presentato al Un Certain Regard del 2019 e scelto per rappresentare la Russia nella sezione Miglior Film Straniero agli Oscar, entrando anche nella shortlist della stessa categoria.

Il resto, probabilmente, “sarà” storia.

C’era una volta… Kantemir Balagov: chi è il regista di Tesnota e La ragazza d’autunno

Kantemir Balagov, cinematographe.it

Facciamo un po’ di cronaca. Kantemir Balagov nasce a Nal’čik, capitale della Repubblica Autonoma di Kabardino-Balkaria, il 28 luglio 1991 da madre professoressa e padre imprenditore. Dopo un’infanzia e un’adolescenza segnata dalla passione per il cinema e da ammiratore di Tarantino, Balagov decide di dedicarsi agli studi in Economia e Legge, una breve parentesi prima della virata definitiva nel mondo della Settima Arte.

Caso vuole che nel 2010 niente meno che Aleksandr Sokurov, uno dei più grandi esponenti recenti del cinema russo, decida di creare un corso dedicato al cinema nell’università della capitale cabardina. Pensate l’invidia che consumò Balagov data l’impossibilità di partecipare alle lezioni per dei noiosi impegni universitari, ma il nostro non è uno che si perde d’animo e trova il modo di seguire dall’esterno lo svolgersi del corso. Dopo poco tempo il richiamo diventa troppo forte e il ragazzo scrive al maestro russo di prendere visione di alcuni suoi lavori precedenti e di inserirlo nel corso anche se già iniziato. La sua richiesta viene accolta e poco tempo dopo si riesce a laureare.

Probabilmente neanche Sokurov avrebbe pensato al talento che era riuscito a formare.

Nel 2014 Bagalov gira il cortometraggio Pervyy ja, presentato al 67esimo Locarno Festival ed alla 68esima edizione del festival di Cannes. Un lavoro autobiografico, che segue le vicende di un giovane di Nal’čik in cerca di se stesso, andando anche contro una famiglia limitante (il corto è visibile su Youtube con sottotitoli in inglese), tutte tematiche che molto hanno a che fare con la sua successiva produzione artistica.

Ma è il 2017, l’anno della sua opera prima, che il giovane si fa conoscere al mondo intero.

Kantemir Balagov, un giovane vecchio

Tesnota, cinematographe.it

Testnota (Closeness) è un’opera profondamente studiata sia nel contenuto che nella forma ed in più traccia un percorso, una poetica, un modo di vedere il cinema e una scelta precisa che indica i personaggi come mezzo per parlare di se stessi e del mondo. La cura del lavoro dei propri attori, l’intimità con i quali li ritrae e la scelta di farli parlare con “rumori del corpo” (tutti eh) lo riporta molto a Sokurov, così come i piani sequenza e via dicendo, ma di questo parleremo dopo.

In un film che inizia come oggetto fuori dal tempo, Balagov inserisce con forza e ferocia scioccante dei temi di grande urgenza, non preoccupandosi di sbatterli in faccia allo spettatore, ma anzi con la voglia di cambiargli la giornata. Echi di un mondo in cui è cresciuto e della storia recente del suo Paese, in cui le restrizioni razziali, l’esistenza di tribù religiose e le regole appartenenti ad un sistema familiare antico costringono, in senso strettamente semantico, il nuovo. Sono le inquadrature strette, gli spazi angusti, gli abbracci imprigionanti che permettono al film di far sentire sulla pelle di chi vede quel senso di claustrofobia suggerito dal significato polisemico del titolo polisemico, in cui in nome della fede, della comunità, dei principi e dell’amore non si possa più vivere in libertà.

Libertà che d’altro canto è fortemente presente grazie alla splendida protagonista, sia per la sua anticonvenzionale storia d’amore di shakespeariana memoria, come è quella tra un’ebrea e un cabardo, ma in maniera più sottile anche negli aspetti che compongono una ragazza bellissima che si trova a suo agio nelle vesti di un uomo.

Kantemir Balagov: uno stile straordinariamente consapevole

Kantemir Balagov, cinematographe.itTutti elementi di un cinema fortemente impressionista, filo conduttore che ci porta direttamente al 2019 e a La ragazza d’autunno. Più soldi (neanche troppi in realtà), stessa sezione e stesso festival, stesso Paese, stessa poetica, qualche variazione. Balagov abbandona il 4:3 e le inquadrature strette per passare ai piani sequenza, all’alternanza di verde e arancione, al costume e alla scenografia in stile Liberty.

La ragazza d’autunno: recensione del film di Kantemir Balagov

Nella tela di ogni quadro che Balagov dipinge per noi in questa opera seconda, ci viene raccontato come questa volta il passato non è quello legato a degli ideali di un mondo superato, ma che si ostina a non morire, ma quello connesso ad uno sconvolgimento esistenziale, dopo un periodo in cui la morte è stata la quotidianità. L’assedio di Leningrado fu uno dei peggiori della storia recente e lasciò la città in un limbo, come se il tempo si fosse fermato e la vita non andasse più avanti, costretta a mischiarsi al suo opposto, in una danza costante (magari in un vestito verde) che purtroppo non porta da nessuna parte. Questo racconto storico, questo malessere sociale e collettivo è come al solito rintracciabile nelle vicende umane dei personaggi, in questo caso due ragazze, entrambe alle prese con la loro incapacità di “riempirsi” di vita, chi per un senso e chi per un altro. La metafora di una società con la volontà di rifiorire, ma con la morte ancora dentro, rappresentata dal corpo femminile, simbolo di creazione e di fertilità per eccellenza, costretto ad accettare la sua aridità, la sua sfioritura, la cui anima, paralizzata dal terrore, ha il solo potere di togliere la vita. E trovare conforto nell’accettazione di questo, del proprio destino e di quello degli altri, schiavi per sempre di un passato soffocante.

Kantemir Balagov, cinematographe.it

Nella straordinarietà di Balagov c’è la consapevolezza, parola che è stata usata più volte in questo articolo, perché essa è fuori dal comune se rapportata all’età dell’autore, ma, di più, lo è anche ampliando il campo a fattori generali. Il cinema del giovane russo permette di ammirare una visione d’insieme, pressoché completa, degli elementi del mezzo cinematografico, in cui ogni cosa va al suo posto. Un rapporto consumato in un corridoio in cui non si sta in due, un cane dal muso allungato, una colatura di vernice, l’altezza di una donna, i tappeti attaccati alle pareti, fino ad arrivare alla pluralità dei significati che può avere un sorriso, un abbraccio o l’accensione di un phone per capelli.

Tutto diventa cinema, tutto parla il linguaggio del cinema e tutto diventa, per questo, bellissimo.