Il Sol dell’Avvenire: analisi e spiegazione del film

Il sol dell’avvenire, l'ultimo film di Nanni Moretti, sovverte la tentazione del disincanto con un atto immaginativo. Dalle citazioni alle canzoni, proviamo a ripercorrerlo e a sciogliere i suoi nodi.

In Il sol dell’avvenire Giovanni (Nanni Moretti) è un regista settantenne alle prese con tre film. Uno lo sta girando e s’intitola Il sol dell’avvenire, verso preso da Fischia il vento, canzone della Resistenza modulata melodicamente da un canto sovietico: è la storia di Ennio (Silvio Orlando), giornalista dell’Unità e segretario della sezione del PCI al Quarticciolo, e di Vera (Barbara Bobulova), una sarta, prima entusiasti per l’arrivo a Roma del circo ungherese Budavári – il nome proviene da Palombella rossa, dove Imre Budavári (1956), pallanuotista magiaro, interpretava sé stesso – e poi afflitti all’ascoltare le prime notizie dei sollevamenti popolari a Budapest contro il governo filosovietico di Mátyás Rákosi, sollevamenti infine repressi nel sangue dall’Armata Rossa

Un altro film, lo sta scrivendo. Ed è tratto dal racconto Il nuotatore, di John Cheever: storia di una lunga nuotata di ritorno da un party sonnacchioso verso casa, piscina per piscina, di Ned, un uomo che sente di aver raggiunto il punto apicale della sua vita, quello che prelude al declino. Un altro ancora, lo sta immaginando: la storia di una coppia di ragazzi che s’incontra al cinema – a vedere La dolce vita – e che s’innamora e, con fatica, attraversa, a suon di canzoni d’amore italiane, i decenni che la attendono, tra incomprensioni e slanci rinnovati, lei che mette a disposizione con generosità il suo calore e lui che si vergogna di averne bisogno. 

Il sol dell’avvenire: uno, nessuno, centomila Nanni

Il sol dell'avvenire, cinematographe.it
Nanni Moretti (1953)

Con ciascuno dei personaggi maschili, il regista s’identifica: è l’angosciato Ennio, che, di fronte alla crisi di coscienza del suo partito, vuole farla finita; è il nuotatore che mette alla prova il suo corpo per verificare quanto vigore gli resta; è il giovane che appesantisce la relazione con i suoi pudori e le sue nevrosi. Su tutti e tre interviene in senso correttivo e re-immaginativo, perché, se è vero che non può emendare le titubanze della sua vita – la moglie Paola (Margherita Buy), anche produttrice dei suoi film, cerca in analisi la forza di lasciarlo, e lui, messo di fronte alla risoluzione di lei, le chiede sommessamente di restare –, può però correggere quelle dei suoi personaggi, dar loro una direzione diversa, appunto accompagnarli verso il sol dell’avvenire

Uno slancio, come il tuffo di Ned, piscina dopo piscina, per guadagnare una nuova velocità, in equilibrio tra la gravità dell’acqua e le altre forze che servono a bilanciarla. E, nonostante la levità apparente del gesto registico e del tono complessivo, Il sol dell’avvenire è proprio un film sul peso, non tanto del tempo, ma della responsabilità di continuare a costruire immagini in cui etica ed estetica si riflettano l’una nell’altra. E, così, continuare a provare a cambiare, attraverso le immagini, anche la società. Anche se tutto sembra andare in direzione contraria.

Quattro film nel film. Giocare a scatole cinesi

il sol dell'avvenire spiegazione cinematographe.it
‘Il sol dell’avvenire’ è al cinema dal 20 aprile 2023.

Il sol dell’avvenire è un metafilm non solo per il gioco ad incastro, ma anche perché, mediante i suoi allestimenti cinematografici – quello realizzato; quello progettato; quello immaginato –, non tanto rappresenta o spiega la vita, ma appunto la edifica, come fosse essa stessa spettacolo. 

C’è forse un po’ di Pirandello, dentro questo film: la vita non è in contrasto con la maschera, perché la vita – a patto che non si voglia debordare nella psicosi, nella confusione tra realtà interna ed esterna – può darsi solo attraverso la maschera. Per questo, è così importante passarla sotto il vaglio estetico, in quanto estetica ed etica non sono dimensioni divergenti e inconciliabili, ma espressione di uno stesso impegno, di una stessa chiamata alla responsabilità di farsi, di calarsi nel vivere, di dargli una forma che sia autentica, non corrotta dalla banalità e dall’omologazione rappresentativa. 

In uno dei momenti più divertenti del film, Giovanni prova a boicottare l’ultima scena di un quarto film nel film, un thriller – o forse un crime, epigono-surrogato dei drama della mala à la Gomorra – prodotto dalla moglie: si tratta del lavoro di un giovane regista esaltato, cresciuto nel mito della violenza calligrafica, dell’estetizzazione del male quale strumento di lievitazione emotiva, di sottolineatura didascalica, ma svuotata di sostanza morale, della bestialità nell’umano. 

Per Giovanni è importante che quella scena non venga girata così come pensata – e infatti trova ogni pretesto per differire l’ultimo ciak – proprio perché quella scena ostacolata contiene, nel modo in cui viene concepita, un linguaggio consumato, banale: “l’arte è e deve essere controintutiva”, commenta Corrado Augias, convocato in aiuto alla causa. La costruzione di un’immagine contribuisce alla costruzione della realtà: ripulirla dal cliché e dalla volgarità è un impegno a cui il regista, pur acciaccato e pur immalinconito – gli antidepressivi e le creme viso non fanno miracoli –, non intende abdicare.   

Il sol dell’avvenire: (non) sono solo parole

Il sol dell'avvenire, cinematographe.it
Silvio Orlando e Barbora Bobulova sono i protagonisti de “Il sol dell’avvenire”, il film nel film di Moretti.

In un altro momento, rimasto solo in macchina con la sua assistente, preoccupato per un film su cui s’aggrumano presagi di sventura – il rito famigliare di inizio riprese è fallito e, nel tempo, scoprirà anche che l’attrice protagonista è una donna petulante che vuole mettere il becco su tutto, mentre il finanziatore francese, pieno di debiti, li lascerà nei guai –, Giovanni si lascia andare a un canto a squarciagola, a cui presto si unisce tutta la troupe, di Sono solo parole, canzone scritta da Fabrizio Moro per Noemi

Molti spettatori sono rimasti stupiti dalla scelta della canzone, prima di una lunga punteggiatura sonora che comprende, tra i brani pop, anche Think, di Aretha Franklin, Lontano lontano, di Luigi Tenco, La canzone dell’amore perduto, di Fabrizio de André, Voglio vederti danzare, di Franco Battiato. Eppure, la scelta è perfettamente coerente: l’uso della canzone è, infatti, antifrastico, perché, in verità, non sono mai “solo parole”. Riecheggia il refrain cult di Palombella rossa – “Le parole sono importanti!” – in anticipo sul rimprovero a cui il regista avrebbe, di lì a poco, sottoposto la sua attrice, rea di aver modificato una parola del copione, un rimprovero a suo modo di vedere necessario perché “se cambi una parola, cambia tutto”.  

Come le parole, sono importanti i princìpi, averne “almeno due o tre”, dice Giovanni. Sono gli stessi princìpi – la coerenza etico-estetica delle immagini come strumenti di costruzione della realtà, e quindi anche della società; la responsabilità di ciò che si dice e che si mostra attraverso il proprio medium; l’idea che l’arte sia qualcosa di irriducibile a prodotto o, peggio, a un algoritmo – che rivendica nel confronto con i produttori Netflix, che, con le bocche riempite di retorica narratologica, pretendono di spiegargli come dovrebbe funzionare un racconto visivo per estorcere attenzione a chi lo guarda. Una satira di un modo di far cinema che s’impone e su cui il regista che resiste si riserva il diritto di ridere. Come in passato ha riso di tutto ciò che lo spaventava, malattia e morte comprese.

Il sol dell’avvenire: la politica è (anche) amore. Ma serve ripensare il finale

Quando tutto sembra essere andato a rotoli, senza speranza di recupero, – la moglie Paola è decisa a lasciarlo; la figlia Emma ama un ambasciatore che ha l’età del padre; il film iniziato non può essere finito a causa dell’improvvisa evaporazione dei finanziamenti e i nuovi finanziatori hanno dato il loro assenso, ma poi chi sa –, Giovanni compie una scelta. Potrebbe considerarsi un atto psicomagico, un azione che richiede all’inconscio una reazione immediata, oppure la manifestazione concreta del credo esistenzialista interiorizzato: essere liberi è essere responsabili; le scelte che compiamo non solo dicono chi siamo, ma cambiano anche chi siamo, spingono in altra direzione il nostro futuro possibile. Invitato a pranzo dall’ambasciatore polacco che sta per diventare suo genero, Giovanni sorprende la sua famiglia, il suo cast e i suoi nuovi produttori sudcoreani – apertura a un cinema ‘altro’, ma perfettamente in grado di sintonizzarsi con il nostro, con il cinema della vecchia Europa – comunicando loro di volere, per il suo film, un altro finale: Ennio non si impiccherà più. Lui, l’uomo in declino, angosciato per la morte dei suoi valori, sopravviverà. Darà un’opportunità all’amore.

L’allegria concitata con cui tutti accolgono la notizia di estende fino alle scene finali: una marcia a cui partecipano i personaggi di questo film e i personaggi dei film precedenti di Moretti, una grande famiglia che restituisce il senso di una continuità di discorso – di poetica, si direbbe – e un sentimento di partecipazione comunitaria. Si tratta di un popolo festoso che allunga il passo verso “l’avvenire”: passato e presente insieme. Il film, che Barbara voleva trasformare da politico a sentimentale – tra Ennio e Vera non c’è soltanto complicità militante, ma un’autentica passione, lo ha sempre sostenuto – si è finalmente trasformato in un film d’amore. I sentimenti, come un testo o come uno spettacolo, vanno ugualmente scritti e riscritti; se serve, corretti, perché possano ripulirsi e continuare, perché possano creare immagini nuove e impensate, lontane dai cliché, energie immaginative che aggancino il futuro.

Il film si chiude, così, con un’Altra Storia, non solo opposta alle premesse, ma anche lontana dal vero storico: i comunisti italiani, anziché schierarsi dalla parte del totalitarismo sovietico, affiancano i giovani ribelli ungheresi, risparmiandosi, così, l’esperienza della rottura e della frammentazione interna. L’ucronìa di Nanni Moretti – un what if nel segno dell’unione, metaforizzata dall’adunanza ‘popolare’ in marcia, a passo spedito verso il domani, ed è con questa parola che terminava anche Mia madre, uno degli ultimi capolavori morettiani – è il sortilegio di cui dispone l’uomo di cinema che rilancia alla fiducia nelle parole e nei princìpi. Entrambi, parole e principi, costruttori di realtà. La nostalgia scompare allora di fronte all’imperativo di resistenza, che non è mai reazione al cambiamento o tentativo di negarlo, ma la bracciata che permette al corpo di muoversi nell’acqua, a sua volta, come quello umano, anch’essa corpo leggero e pesante insieme.