Great Freedom e la regia “teatrale” di Sebastian Meise, fatta di denunce e intimità violate

Analizziamo la regia di Sebastian Meise attraverso l'analisi di Great Freedom, disponibile su Mubi dal 17 gennaio 2023. Un film fatto di denunce e intimità violate

Great Freedom di Sebastian Meise comincia con la proiezione di alcune immagini sgranate e bruciacchiate in un simil 35mm che nel ritrarre alcuni atti sessuali intrapresi da giovani omosessuali all’interno di un luogo non meglio definito, vorrebbero identificare nella violazione estrema e incontrollata della loro intimità il senso ultimo del film, dimostrandone urgenza registica e tematica senza tuttavia mostrare o raccontare alcunché, se non la proiezione sfacciata e certamente esplicita – anche se filtrata e parzialmente censurata dalla pellicola graffiata – di un desiderio sessuale che non può in alcun modo consumarsi nel privato, divenendo immediatamente fatto pubblico e in definita prova di reato, capace di garantire condanne, sanzioni e vergogna.

Il cinema di denuncia e d’impegno sociale di Sebastian Meise

Grosse freiheit - Cinematographe.it
Hans e Viktor assistono all’allunaggio del 1969.

Il cinema di Meise – regista e sceneggiatore austrico classe 1976 – che ben conosciamo fin dai tempi di Stillleben (2011) e Outing (2012) si interessa molto poco alla forma cinema in quanto strumento di intrattenimento, considerandone piuttosto la funzione politica e sociale, veicolando perciò con i suoi film, pur sempre opere ibride tra formula documentaristica e opera di finzione, messaggi di denuncia rispetto a tematiche socialmente impegnate e attualissime quali la disfunzionalità della famiglia, la pedofilia e l’omosessualità.

Nel caso del suo terzo lungometraggio, questo Great Freedom che sembra fin dal titolo appellarsi ad una questione di ribellione e grido pubblico di verità e libertà, Meise mostra la condizione estremamente drammatica, logorante, destabilizzante e alienante vissuta e subita dagli individui omosessuali dal 1948 al 1969 in Germania, a causa dell’assurda esistenza del Paragrafo 175, un articolo del codice penale tedesco in vigore dal 15 maggio 1871 al 10 marzo 1994 che considera in quel periodo un vero e proprio atto criminale qualsiasi forma di rapporto sessuale di tipo omosessuale, alleggerito nel corso degli anni, se così si può dire, fino alla sua totale abrogazione.

Great Freedom però a dispetto di qualsiasi aspettativa non si interessa all’analisi e studio dell’omosessuale costretto a celare la propria condizione nella Germania del tempo essendo libero e sconosciuto agli occhi della legge, piuttosto diviene dramma carcerario e cinema da camera, che sfruttando la parabola dell’omosessualità derisa e criminalizzata dalla vergognosa esistenza del paragrafo 175, racconta una grande storia d’amore e d’amicizia, filtrata dalle spietate leggi carcerarie, sorrette e create ad hoc non tanto dalle guardie, piuttosto dai carcerati, molto spesso capaci di barattare aiuti di qualsivoglia genere con del sesso omosessuale, altrimenti ripudiato e denunciato nella “libera società” in quanto condizione perversa e riprovevole dell’uomo non altezza della propria identità, umanità e virilità.

Formula documentaristica, cinema da camera e impostazione teatrale

Meise approcciando dunque la materia del cinema carcerario e abbracciando a fondo le dinamiche e la forma del cinema da camera, dirige con estrema semplicità, pur prestando attenzione cinematografica e perizia tecnica – e fotografica – assolutamente intuitiva e dialogante – un film che compie qualsiasi passo pur di non aderire in nessun caso al più classico racconto da carcere, o meglio, sfruttandone topos e cliché, da ribaltare con il procedere del film, divenendo una ricerca documentaristica e in qualche modo teatrale nella sua volontà così precisa e chirurgica di mostrare la cruda e nuda realtà di quegli individui e ambienti, privandoli di qualsiasi potenziale estetica o abbellimento cinematografico.

Basti pensare alla scelta fotografica del film, curata dal Crystel Fournier di Tomboy (2011) e Diamante Nero (2014), considerando che un bianco e nero non ne avrebbe variato nemmeno un singolo fotogramma, in quanto eternamente composta da bianchi pallidi e poi accesissimi, oppure da un nero inizialmente leggero e poco marcato, fino alla più cieca e buia oscurità. Great Freedom muove e pone i suoi protagonisti – Hans Hoffmann (Franz Rogowski), Viktor (Georg Friedrich), Leo (Anton von Lucke) e Oskar (Thomas Prenn) – all’interno di un istituto penitenziario che appare di fatto come un non luogo, tra pareti grige, bianche e nere, camere oscure, luoghi desolati e spazi cavernosi e labirintici che tutto appaiono fuorché scenografie cinematografiche.

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La sensazione è appunto quella di ritrovarsi ad affrontare un’opera teatrale composta di scenari teatrali, governati e sorretti però da linguaggi cinematografici, a partire dalle sequenze di dialogo interne alla cella di Hans e Viktor, in cui campo a due e campo e controcampo si alternano, privando il film di intenzioni registiche virtuose e complesse, a favore di un’economia cinematografica senz’altro funzionale e diretta.

Sebastian Meise resta sui corpi e i volti degli individui che racconta tra primi e primissimi piani, pur di avvicinare pienamente lo spettatore alla loro sofferenza psicologica e al loro logoramento emotivo, violentandone e cancellandone lo spazio di comfort e distanziandosene solamente nei frammenti d’intimità. Basti pensare al rapporto sessuale consumato nel buio di una cella pubblica flebilmente illuminata e frequentata dai cosiddetti “ribelli e irrispettosi delle regole carcerarie” tra Hans e Leo. Un rapporto sessuale protetto e celato soltanto da un paio di coperte, che Meise filma a distanza, oltre le reti e sbarre della cella, creando quel feroce contrasto che è poi il nucleo e vero e proprio materiale riflessivo del film.

Il contrasto tra rispetto e violazione dell’intimità

Un contrasto che prevede la distanza registica di Meise a favore dell’intimità, capace di presentare sentimento, profondità ed emotività del gesto e dell’azione, contro la brutalità della resa pubblica di tali situazioni da parte della Germania del tempo che non soltanto filmava di nascosto i rapporti omosessuali ponendo cineprese in luoghi celati e strategici, ma li analizzava pubblicamente nel corso di processi pubblici estenuanti, profondamente discriminatori e atti a garantire la vergogna più profonda dell’imputato, accusato soltanto di aver espresso la propria sessualità.

Ecco dunque il contrasto tra regia intimista ed emotiva di Meise che resta a distanza comunicando urgenza protettiva e di sentimento nei confronti dei suoi protagonisti e carattere invece brutale, esplicito e violento delle riprese senz’altro illegali operate dalla polizia tedesca del tempo, quelle che Meise utilizza come apertura del film, nel corso dei titoli di testa, estremamente vicine ai corpi, agli organi sessuali e al gesto.

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Ciò che però genera ulteriore e definitivo interesse è la sequenza nei sotterranei del Great Freedom, locale gay dall’insegna rossa al neon che dà il titolo al film, all’interno dei quali Hans si muove muto, guardingo e sperso, osservando tra cieca oscurità e sprazzi di luce pur sempre tenue, momenti di sessualità feroce, esplicita, voyeuristica, di contatto pelle a pelle e che Meise filma con la camera a mano pur di restare su – e dentro – Hans, favorendo il legame diretto tra lo spettatore e questa dinamica oscura eppure finalmente libera di esistere, anche se ancora una volta relegata all’oscurità e ad una dimensione cavernosa e di perversione, che trova Hans profondamente estraneo, in un peregrinare disinteressato eppure osservato continuamente, biecamente e curiosamente, dai frequentatori disperati e dannati di un vero e proprio girone infernale.

Dopodiché la luce, la risalita e l’intenzione inattesa e allo stesso tempo nient’affatto sorprendente di tornare al bianco e il nero, al grigiore, al buio e alla sicurezza della cella. Qual è il limite della grande libertà? Sebastian Meise sembra porre questa domanda a tutti noi. Certamente la risposta resta eternamente soggettiva, così come in sospeso e destinata ad una riflessione più ampia, privata e intima, proprio come la sessualità espressa da Meise e ancora una volta vissuta ed elaborata da ognuno di noi.

Great Freedom è disponibile nella sua versione italiana, all’interno del sempre più ricco e interessante catalogo Mubi, a partire dal 27 gennaio 2023.

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