I fratelli D’Innocenzo: artisti o provocatori? Il favoloso cinema cattivo dei gemelli geniali sotto il segno di Edipo

Un’indagine, con l’aiuto della loro poesia, intorno a chi sono e cosa vogliono davvero dal cinema i fratelli D’Innocenzo, artisti gemelli che sfidano l'inconscio. 

Pochi artisti suscitano passioni intense e divisive quanto i fratelli D’Innocenzo. L’uscita in sala di America Latina, il loro terzo lungometraggio e, più a margine, le intemperanze social di Fabio, che fa scivolare con troppa leggerezza le dita sulla tastiera per rispondere a hater imprudenti o forse soltanto a banali (e annoiati) provocatori, hanno riaperto l’interrogativo sulla qualità del loro cinema: questi due gemelli che sembrano identici (ma non lo sono), con il ciuffo castano a coprire la fronte e il naso bianco e appuntito che si piega all’insù e poi ci ripensa e vira giù, sono autentici uomini di cinema o un fenomeno mediatico glam?

Fanno parlare di sé perché sono belli, giovani e vestono Gucci oppure perché hanno qualcosa da dire? Il loro cinema incide le coscienze o seduce volubilmente con un’estetica tanto abbacinante quanto vuota? Il loro racconto – apparentemente quasi sempre lo stesso: la periferia, che sia un luogo reale o simbolico – è sorretto dall’immagine o si piega alle sue esigenze di gratificazione immediata? 

Il cinema divisivo dei fratelli D’Innocenzo

Fabio e Damiano D’Innocenzo, classe 1988, sono poeti, fotografi e registi.

La verità, intorno a questi due gemelli – la cui fama di enfant prodige che non hanno avuto bisogno di studiare cinema per sentirsi autorizzati a farlo (e per saperlo fare) alimenta il mito (loro) e il risentimento (altrui) -, è che sono bravi e necessari soprattutto perché costruiscono film spigolosi ed esigenti, chiedendo allo spettatore uno sforzo interpretativo: nelle loro opere non viene mai apparecchiata alcuna verità e non ci sono lezioni, ma solo una rappresentazione, dalle implicazioni più psicoanalitiche che sociali o, meglio, sociali perché prima psicoanalitiche, della fatica tutta adulta di abbandonare l’infanzia e perdonare ai padri – o perdonarsi come padri – di essere (stati) mediocri, frustrati, sconfitti, soprattutto incapaci di trasmettere un amore autentico per la vita e non solo la compulsione del possesso, dell’accumulo – ordinato o disordinato, dipende dai casi – dei simboli di potere. 

Il cinema psicoanalitico dei fratelli D’Innocenzo: una riflessione sulla fragilità dei padri e sulla risoluzione impossibile dell’Edipo

 

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Se, per capire meglio il loro cinema, ci rivolgiamo alle poesie che hanno scritto qualche anno fa – e raccolto in un libro bellissimo, Mia madre è un’arma (2019), edito dalla Nave di Teseo –, scopriamo che per la figura del padre, il loro, ma soprattutto per la paternità simbolica, nutrono una vera ossessione. L’identificazione con il padre appare tanto incompleta – perché il padre è un perdente e somigliare a lui significherebbe esserlo o diventarlo a loro volta – quanto desiderata (il testo più struggente di tutti è Email a mio figlio, in cui Damiano scrive al figlio che immagina di avere in futuro da una donna molto amata) e l’ambivalenza del rapporto s’ingorga spesso nell’incomunicabilità. 

[…] Oggi ha chiamato mio padre.
Voleva sapere tutto sulla mia felicità.
Gli dico che non la conosco,
Per un po’ ci siamo frequentati ma lei non poteva spesso
E io non volevo poco.
Per tutta la telefonata ci siamo annoiati assieme. […]

 (Chiamata, da Mia madre è un’arma)

In una società in cui la messa all’angolo del padre ha imprigionato tutti, uomini e donne, all’obbligo virilizzante della prestazione e della dimostrazione e si resta troppo a lungo (talvolta per sempre) i bambini adora(n)ti della mamma per risarcirla inconsciamente di ciò che perde quando, crescendo, ci si affranca da lei, i D’Innocenzo s’insinuano nella piega più scomoda della riflessione, nel punto morto e mortificante dei nostri malesseri, delle nostre desolanti infelicità, quello situato nella triangolazione edipica, nel momento – eterno, inarchiviabile – in cui si scopre che c’è un altro, l’elemento dispari che separa la coppia e chiude con un colpo d’accetta il capitolo della fusione perfetta. E, del resto, chi meglio di due gemelli conosce il dolore della divisione, dell’addio a un altro sé, diverso e uguale?

[…] Facciamo che non ti interessa se ho intrapreso certe strade.
Non abbiamo mai segnato le mappe come buone e non buone.
Che tu non mi abbia mai visto rubare.
E però sentito tornare.
Che non sia stato presente quando sei sbracata dalla scala
E papà ti stava abbracciando.
Facciamo che lì non abbia visto che esiste, perché sai,
Vorrei averlo scoperto io quell’amore,
Per meriti miei, per casualità mie,
Per mie tristezze. […]

(Mamma, da Mia madre è un’arma‘)

Un cinema intellettuale, senza compassione, che interroga lo spettatore e lo costringe a trarre da solo le sue conclusioni

‘America Latina’ è nelle sale dal 13 gennaio 2022.

Il loro cinema, a differenza della loro poesia, non è semplice e limpido nell’espressione, ma ugualmente scuote con un garbo subdolo, lasciandoci sospesi nel pensiero, ostaggio i nostri dubbi, perché nulla perturba più dell’incertezza, del non sapere se quello che abbiamo visto ci è piaciuto o no, soprattutto se lo abbiamo capito (e, del resto, a loro interessa proprio che ci facciamo questa domanda: cosa c’è da capire?). 

Ai film dei D’Innocenzo viene riservato un atteggiamento di sospetto perché sono ‘lanthimosianamente’ intellettuali, perché devono essere ripensati a fine visione. Si spingono, freudianamente, al di là del principio del piacere e, in fondo, scrutano anche le nostre famiglie, ne risvegliano fantasmi e finzioni: lo fanno, da infanti ‘adultizzati’ più che da adulti infantili, cristallizzando quella malignità un po’ egoista che i bambini non sanno nascondere, mentre i loro genitori hanno da tempo imparato a farlo, anche se non possono mai considerarsi del tutto al sicuro dal riemergere della pulsione repressa, del rimosso infernale che divide l’io in infiniti frammenti inconciliabili. E la cantina, con il suo segreto, di America Latina simboleggia proprio questo ritorno pulsionale che costringe un uomo apparentemente realizzato a scegliere se vedere o non vedere, se vivere ‘solo’ nevroticamente, quindi nella repressione, o, se prendere la strada della follia.

I fratelli D’Innocenzo, nativi, ma non interpreti della generazione che per prima ha iniziato a fare i conti con le mancanze paterne (e le mancanze del paterno), ritraggono, senza compassione, chi, in fondo, è come loro, ma a loro non somiglia: gli uomini narcisisticamente fragili e irrisolti, quelli che non hanno saputo crescere, che non hanno saputo diventare padri, pur essendolo biologicamente diventati, forse perché ancora bloccati nella condizione di figli.

La differenza, la similitudine mancata, sta nella diversa consapevolezza: i gemelli geniali del cinema italiano sanno bene che non c’è nulla al di fuori dell’infanzia e che, per continuare a viverla, bisogna liberarsene. Servendosi di un film. O anche solo di una poesia. I loro personaggi, però, sono e restano prigionieri di sé, del sogno impossibile – perché respinto – di un eterno paradiso infantile.

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