Ero in guerra ma non lo sapevo: la storia vera dietro il film

Il film che racconta la storia dell'omicidio di Pierluigi Torregiani, Ero in guerra ma non lo sapevo.

Diretto da Fabio Resinaro con protagonista Francesco Montanari e Laura Chiatti, il lungometraggio Ero in guerra ma non lo sapevo è tratto dall’omonimo libro scritto da Alberto Torregiani, il figlio di Pierluigi, il quale rimase ferito gravemente lo stesso 16 febbraio del 1979 durante l’assassinio del padre ad opera dei PAC, ovvero i Proletari armati per il comunismo, un gruppo di terroristi attivi durante gli anni di piombo, a fianco, anche se si trattava di una formazione minore, delle Brigate Rosse e Prima Linea.

Dopo un passaggio al cinema il film, distribuito da 01 Distribution, arriva su Rai Uno proprio il giorno in cui ricorre l’anniversario da quel turbolento evento, ovvero il 16 febbraio 2022. Che l’abbiate già visto o che vogliate recuperarlo (anche su RaiPlay) certamente vi sarete chiesto o vi starete chiedendo: qual è la verità dietro la finzione cinematografica? Scopriamo dunque i fatti di cronaca e tutti protagonisti di questa tragica vicenda.

Il clima di terrore del 1979

L’attentato a Pierluigi Torregiani avvenne in uno dei periodi più oscuri degli anni di Piombo. Da ambedue gli schieramenti vi erano costanti attacchi e stragi che creavano un clima di terrore e paura imperante in tutta Italia, un’atmosfera che prese toni ancora più drammatici con lo svolgimento della sanguinosa guerra tra Francis Turatello e Angelo Epaminonda per il controllo del mercato della droga, del gioco d’azzardo e della prostituzione, una guerra che portò alla strage più sanguinosa nella storia del crimine a Milano, il 3 novembre 1979.
L’omicidio di Torregiani si colloca molto prima di questo evento ma, così come sarà per l’attacco al ristorante Le Streghe nel novembre del ’79, anche la sua storia inizia durante un’irruzione in un ristorante ad opera di un gruppo che si muoveva tra terrorismo e malavita.

Chi era Pierluigi Torregiani e perché aveva con sé un’arma?

Proprietario di una gioielleria alla periferia nord-ovest di Milano, Pierluigi Torregiani girava sempre con una pistola Smith&Wesson calibro 38 regolarmente registrata, per proteggere se stesso e i gioielli che trasportava per i suoi clienti o per le riprese di un programma di televendite che conduceva sull’emittente di Castellanza, in provincia di Varese, Antenna Tre. Insieme alla famiglia, composta dalla moglie e tre figli, Torregiani viveva poco lontano dal suo negozio. Il 22 gennaio del 1979, dopo la messa in onda della televendita con la figlia maggiore Marisa, di ritorno a Milano i due decisero di fermarsi con degli amici a mangiare alla pizzeria Il Transatlantico, vicino a Porta Venezia. Quella notte a Novate Milanese due banditi uccisero, durante una rapina, un cliente di una tabaccheria, a Milano; due donne anziane furono assassinate nel salotto di casa mentre guardavano la televisione e, a qualche chilometro di distanza, verso mezzanotte, al Transatlantico entrarono due uomini armati con l’intento di compiere una rapina.

Torregiani e un suo amico scelsero di reagire estraendo le armi di cui disponevano. Iniziò così una sparatoria che causò la morte di uno dei commensali che cercava di scappare dal locale e di uno dei due rapinatori, Orazio Daidone, membro del clan dei catanesi, per la precisione del suo gruppo armato, il clan dei Cursoti, chiamati “gli indiani” e guidati da Epaminonda.

Cosa accadde il 16 febbraio 1979? L’assassinio di Pierluigi Torregiani raccontato nel film Ero in guerra ma non lo sapevo

Secondo la ricostruzione dell’Associazione Italiana Vittime del Terrorismo e dell’Eversione contro l’ordinamento costituzionale dello stato furono i colpi sparati dal commensale sotto la tutela di Torregiani a uccidere Daidone. L’altra vittima della sparatoria, in base alla ricostruzione dei fatti, fu invece uccisa da un terzo individuo che si trovava all’esterno del locale, complice dei due rapinatori. Sarà un pentito del clan catanesi a rivelare, anni dopo, che l’obbiettivo della rapina era proprio lo stesso Torregiani, la cui storia il giorno dopo era su tutti i giornali.

Torregiani venne descritto dalla stampa come un giustiziere a caccia di rapinatori. Il gioielliere scelse di rispondere a La Repubblica e a La Notte per chiarire la sua posizione, affermando che non si sentiva affatto un giustiziere, ma semplicemente una persona che aveva deciso di difendersi da un tentativo di rapina. Tale rettifica purtroppo non attirò la stessa attenzione che l’iniziale vicenda abbe e la famiglia Torregiani iniziò ad essere oggetto di minacce telefoniche. La questura decise di istituire una sorveglianza speciale: un’auto accompagnava il gioielliere durante i suoi spostamenti.
Il 16 febbraio del 1979 l’auto della polizia che solitamente accompagnava Torregiani venne chiamata altrove per una rapina e quando il gioielliere, insieme alla figlia Marisa e al figlio Alberto, arrivò alla sua gioielleria (poco dopo le 15.00) vi erano ad aspettarlo quattro uomini. Torregiani fu raggiunto da cinque colpi, che lo ferirono alle gambe, al torace e alla testa. Poco prima di cadere a terra, dalla pistola che aveva estratto per difesa partì un colpo che colpì alla schiena il figlio Alberto, il quale rimase paralizzato.

Quello stesso giorno, due ore dopo l’assassinio Torregiani, a Santa Maria della Sala, Venezia, fu assassinato Lino Sabbadin, un macellaio e militante del Movimento sociale italiano, che due settimane prima aveva reagito a un tentativo di rapina nel suo negozio uccidendo uno dei rapinatori. Gli omicidi di Torregiani e Sabbadin si scoprirono in seguito essere collegati in quanto vittime dello stesso gruppo terrorista che li considerava oppositori in quanto si erano difesi ai due tentativi di rapina.

Ero in guerra ma non lo sapevo. Gli autori e i mandanti dell’assassinio

Dopo l’omicidio di Torregiani i quattro uomini salirono a bordo di una Opel Ascona gialla, trovata abbandonata a due chilometri di distanza dal luogo della sparatoria. Fu qui che, salendo su una Renault, un cittadino che aveva seguito la prima auto prese i numeri di targa. Grazie a questa informazione si scoprì che la seconda vettura era intestata a Sante Fantone, un ragazzo di soli 19 anni, militante del collettivo autonomo della Barona a sud-ovest di Milano. Dopo l’arresto di Fantone diversi esponenti di Autonomia Operaria vennero arrestati nonostante l’estraneità al delitto accusando in seguito gli agenti della Digos di averli sottoposti a violenze e torture in carcere.

Nel frattempo gli omicidi vennero rivendicati dal gruppo dei PAC lasciando all’interno dell’auto di un cronista di Repubblica una scatola contenente sei proiettili compatibili a quelli dell’assassinio Torregiani e un volantino che spiegava i motivi dell’attacco. Per i responsabili dell’omicidio Torregiani doveva essere punito perché in seguito alla sparatoria al Transatlantico era diventato famoso come repressore dei “comportamenti illegali proletari”, ovvero le rapine, che erano considerate un legittimo strumento di redistribuzione del reddito. I membri del PAC volevano quindi difendere la piccola criminalità in quanto “legittima” poiché colpiva le grandi organizzazioni, vicine al potere del capitale.

I membri dei PAC vennero arrestati tra la fine del 1979 e l’inizio del 1980. Il processo stabilì che a uccidere Torregiani furono Giuseppe Memeo, Gabriele Grimaldi e Sebastiano Masala. L’omicidio di Sabbadin, sempre ad opera del gruppo, venne commesso materialmente da Diego Giacomin, con l’aiuto logistico di Paola Filippi e di Cesare Battisti. Battisti fu riconosciuto anche come autore dell’omicidio di Andrea Campagna, agente della Digos ucciso il 19 aprile, e di Antonio Santoro, maresciallo del corpo degli agenti di custodia ucciso a Udine il 6 giugno 1978.

A seguito del processo e delle condanne, alcuni dei dirigenti e dei militanti del PAC si pentirono; altri, come Memeo, Grimaldi e Giacomin, si dissociarono. A non operare nessuna di queste due scelte fu Cesare Battisti, il quale dopo la condanna del 1979 a 12 anni nel carcere di Frosinone fuggì nel 1981 assieme a Luigi Moccia, un boss camorrista. Latitante, Battisti visse in Messico e in Francia, dove fu protetto dalla dottrina Mitterrand (1985), una legge che tutela i cittadini italiani responsabili di violenza politica purché non abbiamo più legami con la lotta armata e che non siano colpevoli di delitti di sangue. Tale dottrina restò in vigore fino al 2003, quando il consiglio di Stato francese la dichiarò priva di valore giuridico. Non sentendosi più protetto Battisti fuggì in Brasile, come rifugiato politico. Nel 2019, a seguito della revoca della protezione da parte del governo, Battisti si recò in Bolivia dove venne arrestato e poi estradato in Italia, dove sta scontando la sua pena nel carcere di Ferrara.

Alberto Torregiani, uno dei tre figli adottivi del gioielliere e della moglie (Pieluigi infatti aveva adottato i tre ragazzi dopo aver conosciuto la loro madre, deceduta a causa di un tumore presso l’ospedale in cui egli stesso si trovava ricoverato a causa della stessa malattia), ha combattuto a lungo per il ritorno in patria di Battisti e il suo successivo incarceramento ma, giustamente, ha dischiarato che nulla sarà mai abbastanza, che nulla può porre la parola fine a quell’evento che ha radicalmente cambiato la loro vita.

Ero in guerra ma non lo sapevo. Che fine hanno fatto la vedova Torregiani e i figli Anna, Marisa e Alberto?

Scomparsa nel 2013, la vita di Elena Torregiani si è fermata a quel maledetto 16 febbraio 1979, in attesa di giustizia per l’omicidio che le aveva portato via il marito. Stando a quanto dichiarato in un’intervista, era stata costretta a chiudere l’attività sommersa dai debiti e viveva con 700 euro al mese di pensione, mentre i figli, sottoposti loro malgrado a una doppia tragedia, avevano voltato le spalle.
Anna, Marisa e Alberto, infatti, erano stati adottati dai Torregiani dopo essere rimasti orfani (entrambi i genitori erano morti per malattia).
Di certo colui che si è fatto maggiormente sentire dopo la morte del padre, commemorandolo anche col libro su cui è basato il film Ero in guerra ma non lo sapevo, è Alberto Torregiani, costretto sulla sedia a rotelle a causa di quel colpo partito per difesa.

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