Editoriale | Perché Dustin Hoffman non sbaglia mai un film?

Vincitore di due premi Oscar, Dustin Hoffman è consacrato come uno degli attori migliori della sua generazione. Qui un ritratto attraverso i suoi film.

Quando ci poniamo la classica domanda su chi sia il miglior attore cinematografico delle ultime generazioni, la scelta non può che ricadere sulla magica triade: Robert De Niro, Al Pacino, Dustin Hoffman. Ognuno, a seconda delle proprie inclinazioni, avrà senz’altro ottime argomentazioni per consegnare l’ambita palma al proprio attore preferito: eppure, nonostante questi grandi tre nomi abbiano tutti – a loro modo – fatto scuola nel modo di entrare nel corpo e nella mente di un personaggio, abbiamo a che fare con tre stili unici e distintivi.

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Come affermava laconicamente Luca Carboni nel 1984, …intanto Dustin Hoffman non sbaglia un film (sì, è una citazione poco ortodossa, ma tant’è…): la carriera di Hoffmann è particolarmente brillante e le sbavature – se ce ne sono state – sono completamente eclissate dalla varietà di successi e da uno stile sempre profondo e brillante nell’affrontare ogni nuova interpretazione.

Gli esordi di Dustin Hoffman: Il laureato

Il laureato

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Nonostante la fisicità di Hoffman non abbia mai soddisfatto pienamente i canoni hollywoodiani, la sua grande profondità di analisi è stata in grado di renderlo sempre credibile, qualunque fosse il personaggio. Se in un primo momento – dopo l’esordio esplosivo de Il laureato (1964) – Hollywood ha tentato di inquadrarlo nel ruolo del perdente, la sua carriera ha presto virato verso una varietà molto più interessante e l’ha sottratto a ogni tentativo di inquadramento.

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La sua aria indolente e sorniona l’ha aiutato a rendere il suo Benjamin Braddock (il personaggio principale, appunto, de Il laureato) un protagonista assoluto del cinema degli anni Sessanta, ma ogni prova successiva l’ha messo alle prese con un continuo ricambio di personalità e sfumature emotive. Guardandolo nel suo film di esordio, infatti, si è subito conquistati dal modo in cui il perfetto dosaggio espressivo è in grado di rendere la passività del protagonista alla vita e il dramma umano di chi è abituato a delegare le decisioni al prossimo. Lo scarto passionale che Braddock/Hoffman ha quando decide di giocarsi il tutto per tutto e irrompere al matrimonio di Elaine (Katharine Ross) è un autentico trionfo, ma mai come il ritorno all’immobilità dell’iconica sequenza finale.

Oggi ci risulta davvero difficile immaginare un Benjamin Braddock diverso, ma Mike Nichols – il regista del film – aveva in un primo momento pensato di scritturare Robert Redford, ripiegando, dopo il suo rifiuto, su “il bruttino” Dustin Hoffman. Un bel riscatto per l’attore, figlio di una pianista e di un attrezzista, che si è guadagnato così la sua prima candidatura agli Oscar e un trampolino di lancio verso un successo ormai indiscusso. Con Il laureato, Hoffman dà corpo a uno dei personaggi più ricchi di sfumature di tutto quel periodo così importante per il racconto della ribellione giovanile: probabilmente, presa da sola la sceneggiatura e svuotata dell’immenso lavoro del protagonista e della straordinaria sintonia che si è creata con la Mrs Robinson Anne Bancroft, il personaggio non sarebbe risultato così credibile. Insomma, come ha confermato la storia successiva, Hoffman è Il laureato – così come sarà la colonna portante di numerosi suoi altri successi.

Il senso di Dustin Hoffman per il cinema

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Il piccolo grande uomo

Dal debutto in poi, Hoffman ha iniziato a infilare una serie di trionfi e partecipa ad alcuni dei film meglio riusciti di quel periodo (parliamo della fine degli anni Sessanta e di tutti gli anni successivi, quelli che sono chiamati della Nuova Hollywood). Il bello è che l’allora appena trentenne affronta con la stessa energia ogni nuovo ruolo e – soprattutto – ogni nuovo genere che i produttori hanno l’estro di sottoporgli. Passa dal western di Il piccolo grande uomo (1970) di Arthur Penn dove interpreta lo yankee adottato dai cheyenne Jack Crabb alla commedia di John e Mary (1968) accanto a Mia Farrow. Ma quel passaggio tra anni Sessanta e anni Settanta sarà anche il periodo di Un uomo da marciapiede in cui Hoffman interpreta il ruolo di Rico Rizzo, detto il Sozzo, un truffatore italoamericano che vive alla bell’e meglio tra le strade di New York.

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Qui la trasformazione è già molto sensibile: Hoffman smette i panni del ragazzo taciturno e indossa quelli di un personaggio completamente diverso. Quell’aspetto fisico così ordinario si sporca appena e assistiamo, così, a una metamorfosi: dal modo di parlare – qui utilizza uno spiccato accento italiano – allo sguardo che sfuma dal viscido allo scaltro, Rizzo incarna l’archetipo dell’accattone e la rappresentazione universale dell’America ai margini. Hoffman riesce a rendere questa complessità attraverso il fisico, senza tuttavia caricarlo di espedienti da caratterista: la sua trasformazione è puramente interpretativa e lo trasfigura completamente.

Gli anni Ottanta di Dustin Hoffman: Kramer contro Kramer e Rain Man

Kramer contro Kramer

Gli anni Ottanta per  Hoffman (e per tutta Hollywood) sono un periodo cinematograficamente molto interessante. In particolare, l’attore apre e chiude il decennio con due delle sue interpretazioni più importanti: nel 1980 è protagonista – accanto a Meryl Streep – del dramma familiare Kramer contro Kramer, mentre nel 1988 regala al mondo il personaggio del Rain Man Raymond Babbitt. Entrambi i ruoli gli permetteranno di ricevere la statuetta d’oro come miglior attore protagonista consegnata dall’Academy di Los Angeles alla cerimonia degli Oscar. Anche in questi due casi la trasformazione di Hoffman è esemplare e si serve del talento dei suoi comprimari (la Streep da una parte e Tom Cruise dall’altra) per spiccare il volo.

Nel personaggio di Ted Kramer Hoffman torna a raccontare la borghesia americana che si scontra con la crisi personale e con il crollo della sicurezza degli affetti e della famiglia: quella a cui prende parte è una vera e propria guerra, dove l’avversario è una delle persone più amate al mondo. Anche qui, il lavoro che l’attore fa è tutto basato sull’impercettibile variazione delle sue espressioni, in grado di rendere con la massima naturalezza l’odio, la rabbia, il rimpianto e la sensazione di essere stati abbandonati e traditi. Inutile dire che la sua performance (insieme a quella della Streep) porta una sceneggiatura toccante e sentita a dei livelli superlativi, segnando un traguardo nella storia del dramma familiare raramente raggiunto in tutti gli anni a venire.

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Ma se c’è un ruolo che vede Hoffman confrontarsi con una sfida ancora più grande è quello di Raymond, fratello di Charlie Babbit (Tom Cruise) in Rain Man. In questo film del 1988 diretto da Barry Levinson, l’attore si cala nei panni di un uomo affetto da autismo alla mercè di un fratello cinico e opportunista. La sfida di rappresentare la disabilità senza ricorrere a patetismi o ad atteggiamenti esasperati avrebbe fatto impallidire chiunque, ma non Hoffman che sciocca tutti mettendo in piedi una performance storica.

Dustin Hoffman: umano, (mai) troppo umano

A questo punto possiamo avanzare un possibile punto in comune che lega tuto il lavoro interpretativo di questo grandissimo attore: il massimo rispetto delle peculiarità di ogni suoi personaggio. Ogni volta che Hoffman si cimenta in una nuova parte, è come se la sua personalità si radichi nuovamente e per la prima volta, in ogni film mette in piedi il gioco dell’attore in modo sensibile e attento: come una tavolozza neutra in grado di sposarsi con ogni accostamento, la sua fisicità diventa a tratti estremamente carismatica e affascinante, a tratti fragile e discreta. Davanti a tanti personaggi hollywoodiani (sia chiaro: anche personaggi molto ben costruiti), Hoffman è in grado di rendere gli aspetti più intimi dell’essere umano.

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Hook Capitan Uncino

Questa caratteristica più unica che rara gli permette di passare agevolmente di genere in genere, senza mai fare una piega e non sbagliando – appunto- neanche un film. Perfino quando si confronta con uno dei personaggi che più si presterebbero a un’interpretazione standard e di maniera – il villain della favola moderna Hook Capitan Uncino (1991) – riesce a dare vita a un capolavoro di complessità. Accompagnato da un cast stellare (abbiamo Robin Williams nella parte di Peter Pan, Julia Roberts in quella di Trilli Campanellino, Bob Hoskins è Spugna e Meggie Smith è Wendy, da anziana) Hoffman riesce a imporsi sulla scena con uno dei personaggi più carismatici della sua carriera, nonostante il destino da eterno perdente che perseguita da sempre il pirata dell’Isola che non c’è. Chi, meglio di Hoffman, avrebbe potuto consacrare la coscienza del cattivo di una favola, raccontare il senso di una sfida infinita e sfiancante, il terrore dello scorrere inesorabile di un tempo sempre uguale?

Superata la soglia degli ottant’anni, Hoffman dosa la sua apparizione sul grande schermo ritagliandosi ruoli scelti con cura, in cui asseconda la sua ironia o il suo grande amore per la bellezza e per l’arte: lo vediamo, così, a fianco di De Niro nelle commedie Mi presenti i tuoi? e Vi presento i nostri, una sorta di reunion di star ormai anziane che si divertono a beccare il principe in carica del nuovo cinema comico, Ben Stiller. Hoffman è anche, però, Giovanni de’ Medici, nella fiction Rai ispirata alla celebre famiglia fiorentina: ancora una volta si attesta la sua versatilità, l’attore è un fuoriclasse, uno dei migliori della sua generazione e – in generale – di tutta la storia del cinema.