Al Pacino in 10 film: da Carlito’s Way a Scarface e Il Padrino

Quali sono i film migliori di Al Pacino? Ecco quelli che l'hanno consacrato come una vera e propria leggenda del cinema!

Nato il 25 aprile 1940 ad East Harlem da immigrati di origini siciliane e cresciuto tra mille difficoltà a causa di povertà, dell’abbandono del padre e di un carattere indocile e ribelle che lo portò ad interrompere gli studi, scappare di casa, nonché a cominciare a fumare a soli 9 anni, Alfredo James “Al” Pacino, rimane uno degli attori più importanti, carismatici, affascinanti e amati di ogni tempo. Un immortale del grande schermo, uno dei migliori ambasciatori dell’ “italian style” nel mondo, Al Pacino ha donato il suo volto e la sua voce roca e pungente ad alcuni dei personaggi più importanti della storia del cinema, ma quali sono i film che l’hanno reso una vera e propria leggenda?

Per omaggiarlo abbiamo ripercorso la sua carriera per proporvi i 10 ruoli più iconici di Al Pacino, quelli che più di tutti lo hanno consacrato agli occhi del pubblico. Certo per un attore che ha recitato in più di 50 film è molto difficile e ognuno può avere idee diverse, ma di certo nessuno potrà negare che (al netto di opinioni personali su quale personaggio sia stato il suo più riuscito o più importante) in ognuno di essi Al Pacino abbia fatto risplendere il suo talento, la sua bravura, la sua viscerale intensità di genio della recitazione.

Al Pacino è Sonny Wortzik nel film Quel pomeriggio di un giorno da cani

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Durante gli anni 70, subito dopo la sua interpretazione ne Il Padrino di Francis Ford Coppola, Al Pacino agli occhi del mondo era considerato il futuro, la stella su cui puntare sia da parte dei produttori che dei migliori registi. In quegli anni infatti recitò in film osannati dalla critica come Lo Spaventapasseri, Un Attimo Una Vita, …E Giustizia per Tutti, con numerose candidature e premi, ma sicuramente il film più strano, disturbante e originale che lo vide protagonista fu Quel Pomeriggio di un Giorno da Cani, del grande Sidney Lumet, che già lo aveva diretto nel bellissimo Serpico.

Incentrato su un maldestro tentativo di rapina ordito il 22 agosto 1972 a Brooklyn dai due bislacchi John Wojtowicz e Salvatore Naturale, il film di Lumet permise a Pacino di togliersi di dosso i panni del tenebroso, vincente e machiavellico Michael Corleone, e di calarsi in un personaggio umanissimo, pieno di difetti, senza alcun controllo della situazione, disperato ma che lo spettatore non riusciva mai ad odiare per il suo essere in tutto e per tutto assieme al suo complice (interpretato magistralmente dal rimpianto John Cazale) un perdente scalcagnato.

La pellicola di Lumet è ancora oggi considerata un grande classico degli anni 70, ed uno dei film che meglio hanno mostrato la spietata e fagocitante realtà della New York di quegli anni. Fatto curioso, ancora oggi molti sondaggi mostrano come il Sonny Wortzik di Al Pacino non sia affatto visto come un cattivo ma come una sorta di eroe un po’ incompreso. Di questo il merito è senz’altro del nostro Al, che riuscì a rendere empatico un rapinatore che in fin dei conti fa ciò che fa per trovare i soldi sufficienti per pagare un cambio di sesso alla compagna transessuale Leon, nonché per mantenere i figli e la moglie da cui si è separato. Peccato che nella realtà Wortzik fosse un piccolo satellite del mondo mafioso, e la rapina un maldestro tentativo della mafia di quegli anni di mettere le mani su un po’ di liquidi, ma si sa, il cinema ha le sue regole e le sue leggi.

Di certo Al Pacino mostrò una capacità di dominare ogni singolo secondo, svettando su un cast di grande livello diretto con mano ferma da un regista tra i più acclamati, creando una splendida e comprensibilissima metafora della solitudine del ribelle, dell’individuo, verso un sistema che in fondo lo vuole schiavo, succube e solo.

Benjamin Ruggiero nel film Donnie Brasco

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Donnie Brasco rimane uno dei crime movies più belli e malinconici degli anni 90, di certo uno dei meno commerciali e scontati, diretto con mano ferma e perfetta da Mike Newell nel 1997, è basato sulla vera storia dell’agente dell’FBI Joe Pistone, che per sei anni agì da infiltrato presso la Famiglia Bonanno, una delle più pericolose di New York con lo pseudonimo di Donnie Brasco. Nei panni di Joe Pistone c’era uno straordinariamente camaleontico Jonnhy Depp, mentre Al Pacino fu chiamato ad interpretare Lefty Ruggiero, soldato della famiglia Bonanno, di cui Pistone si guadagnò la fiducia e l’amicizia, riuscendo così a farsi strada e a minare dall’interno l’organizzazione malavitosa che in quegli anni con la Pizza Connection dominava parti importanti del mercato della droga negli Stati Uniti.

Strutturato sulla perfetta contrapposizione tra i due personaggi principali e i due diversi stili recitativi, Donnie Brasco ha infatti da un parte un Depp che da poliziotto a poco a poco comincia a diventare quasi senza accorgersene uguale ai mafiosi con i quali vive e da cui paradossalmente (pur essendone ormai amico) rischia di essere ucciso un giorno si e l’altro pure se scoperto. Dall’altra il film ha un Al Pacino che stupì i suoi fan e gli “aficionados” al genere mafia-movie per il suo stile recitativo più sotto le righe rispetto al solito, e sopratutto per aver dato vita ad un mafioso completamente diverso da quelli che di solito gli avevamo visto interpretare. Il suo Lefty si muove infatti dolente, invecchiato e disprezzato da tutti per tutto il film, schiacciato da una mancanza di successo e riconoscenza totali, da una vita familiare disastrata, da una povertà che lo tallona.

Impossibile quindi non mostrare qui la scena più triste, dolente e disperata del film, il finale dove Lefty (poco dopo che l’identità di Donnie/Pistone è stata resa pubblica dall’FBI) viene “convocato” dalla famiglia. Avendo lui garantito per il ragazzo al momento della sua affiliazione, è considerato ugualmente colpevole, ugualmente un traditore. Conscio di andare incontro alla morte per mano dei suoi stessi “compagni”, lascia i suoi effetti e quel poco di valore che ha in casa, saluta la compagna ignara di tutto e coraggiosamente affronta il suo destino. Prima però chiede alla moglie Annette di dire a Donnie, nel caso chiamasse, “che se deve farlo qualcuno, sono contento che sia lui”.

Ben pochi film hanno saputo rendere in modo così perfetto l’orrenda realtà della cultura mafiosa, la sua ipocrisia e il suo essere in verità ben altro rispetto alla tanto celebrata e paventata organizzazione basata su onore e rispetto. Avidità, cupidigia, opportunismo e spietatezza la attraversano e fanno in modo che uomini come il viscido e violento Sonny Black (un grande Michael Madsen) trionfino sempre anche nella mafia, sopratutto nella mafia, sui leali e onesti “soldati” come Lefty. Al Pacino porta in avanti in modo magistrale la pesante eredità di Humprey Bogart nel far rivivere sullo schermo quei perdenti d’onore, quei criminali fedeli a sé stessi e al proprio codice, sconfitti ma pieni di dignità.

Al Pacino è Carlito Brigante nel film Carlito’s Way

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Dolente, malinconico, disperato, stupendamente collegato all’epoca d’oro dell’hard boiled ma connesso alla terribile era dei cocaine cowboys degli anni 70 ed 80, diretto con poesia e intensità da un Brian De Palma in stato di grazia, Carlito’s Way ha permesso ad Al Pacino di stupire ancora una volta di più, dipingendo un personaggio che era l’esatto alter ego di quel Tony Montana che con Scarface gli aveva permesso di fare la storia del cinema e di fissarsi nell’immaginario collettivo ancora di più se possibile.

Perché all’interno di questo tetro labirinto presago di morte, tradimento e malinconia, Carlito Brigante è a tutti gli effetti un sopravvissuto a sé stesso, alla sua stessa leggenda, al suo passato di narcotrafficante, che lo inchioda nonostante i suoi sforzi nel volersi rifare una vita, ad un mondo criminale che odia ma da cui non riesce a scappare. Carlito infatti ha un solo sogno: mettere via abbastanza soldi in modo pulito per poi andarsene ai Caraibi e ricominciare da zero. Peccato che però che David Kleinfield (un grande Sean Penn), l’amico con cui dirige con successo il locale”El Paraiso”, lo costringa con i suoi disastri a rientrare gioco forza nel mondo della malavita, mettendosi di nuovo dentro l’infernale carosello da cui voleva scappare.

Film che de-costruisce il mito dell’american dream applicato alla vita criminale (tanto caro all’immaginario americano), fu forse per questo male accolto dalla critica che evidentemente si aspettava un’altro Scarface e che non comprese la poesia e la verità in esso contenute. Al Pacino costruì con una recitazione dal ritmo spezzato e dolente un antieroe umano, imperfetto ma di cui era impossibile non innamorarsi, non solo e non tanto per la sfortuna della sua sorte, ma per il sincero e genuino pentimento verso il suo passato, per la volontà di donare alla sua compagna Gail (Penelope Ann Miller) un futuro.

Indomito, coraggioso, cade per mano di uno dei suo luogotenenti che lo consegna alla morte per mano di un piccolo boss emergente, che altri non è in fondo che lo stesso Carlito da giovane, innamorato del potere, del denaro e della fama. La sua morte, i suoi ultimi pensieri, il suo in fin dei conti accettare la sua sorta come espiazione per le sue colpe e come normale epilogo per chi fa parte del mondo del crimine, sono al centro del monologo finale, uno dei più belli che Al Pacino abbia mai interpretato, in un film molto più profondo di quanto sembri nel dipingere le feroci leggi e la cultura del mondo criminale.

Al Pacino veste i panni del poliziotto Frank Serpico nel film ispirato a una storia vera

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Frank Serpico è una delle figure più importanti e famose nella storia della polizia americana. Figlio di immigrati italiani di origine napoletana, servì nell’esercito due anni in Corea, per poi decidere di intraprendere la carriera in polizia, a New York, dove in breve tempo si fece notare per originalità dei metodi, per essere un duro e puro, incorruttibile. Peccato che il resto del Dipartimento in quegli anni fosse invece affetto da una corruzione sistematica, che non risparmiava praticamente nessun Distretto, diffusa tra semplici agenti ma anche comandanti e che li rendeva complici delle piccola e grande criminalità che affliggeva la Grande Mela a quel tempo. Da solo, emarginato, Serpico intraprese una crociata contro un intero sistema, che da lì a poco sarebbe collassato grazie alle sue rivelazioni al New York Times nel 1971, che fecero nascere la Commissione d’Inchiesta Knapp, una delle più importanti nella storia della polizia americana.

Dalle sue gesta, dal suo coraggio e disavventure, il grande Sidney Lumet nel 1973 creò per l’appunto Serpico, e chi se non il nostro Al Pacino poteva essere chiamato ad interpetare un uomo così matto da mettersi contro un intero sistema di corruzione e di inefficienza che facevano di New York all’epoca una vera e propria fogna a cielo aperto? Serpico costò molto poco, neanche 3 milioni di dollari, ma incassò qualcosa come 30 milioni e fruttò al nostro Al un’altra nomination all’Oscar.

Appassionato, credibile, viscerale, il suo Serpico non viene mai descritto erroneamente come un eroe scintillante, ma come un uomo retto, con un proprio codice, pieno di ideali e principi, convinto che il suo lavoro sia perseguire i criminali non certo farci affari o strane alleanze. A colpire fu sopratutto la capacità di Al Pacino di rendere il suo Serpico mano a mano sempre più intransigente, aggressivo, solo contro tutto e tutti ma in fondo forse a suo agio perché abituato da una vita ad esserlo. Il film rimane uno dei più belli ed efficaci nel portare avanti un messaggio di legalità e giustizia, dimostrando quanto basti a volte la volontà di un solo uomo per cambiare le cose.

Vincent Hanna in Heat – La sfida

Sovente ad Al Pacino è stato contrapposto l’altro grande italoamericano: sua maestà Bob De Niro. Quasi sempre sopra le righe, interprete di personaggi sanguigni, intensi, instabili il primo, sostanzialmente ancorato ad uno stile più irregolare ma di solito sotto le righe il secondo. Entrambi amati, osannati, avevano collaborato ne Il Padrino – Parte II ma senza mai far incrociare il percorso dei loro personaggi sul set. L’occasione giunge nel 1995, quando Michael Mann decide di riesumare lo script alla base di un pilot che aveva girato nel 1989: L.A. Takedown, con Scott Plank e Alex McArhtur, che doveva essere il primo di una serie televisiva che non vide mai la luce. Coadiuvato dalla stupefacente fotografia di Dante Spinotti, da un montaggio favoloso e da una colonna sonora incredibile, Mann creò forse il miglior action noir degli anni 90, dove a farla da padrone è l’armonia che nasce dal contrasto tra personaggi, stili e luoghi diversi eppure identici.

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Al Pacino fu chiamato ad interpretare il Tenente Vincente Hanna, a capo della Sezione Rapine e Omicidi, che deve raccapezzarsi tra i cadaveri di alcuni agenti uccisi durante una rapina ad un furgone portavalori. Hanna capisce subito che ha a che fare con dei professionisti, gente pericolosa e preparata, pronta a tutto pur di riuscire; infatti la banda responsabile è capitanata dall’ombroso, taciturno ma determinatissimo Neil McCauley (Bob De Niro), e completata dal giovane e scapestrato Chris (Val Kilmer), il corpulento Michael (Tom Sizemore) e l’arcigno Trejo (Danny Trejo), ed è una delle più pericolose in circolazione. In breve tra i due si innescherà una caccia al ladro implacabile, che porterà entrambi al punto di rottura anche per ciò che riguarda la loro travagliata e tormentata vita.

Diretto in modo maniacale e perfetto, intenso, violento, malinconico, abitato da uomini duri e donne disperate, Heat vive per l’appunto del conflitto tra due uomini, il detective e il rapinatore, che si inseguono, si incontrano, si piacciono, si rispettano anche prima di guardarsi negli occhi e parlarsi in una delle scene più famose del cinema. Entrambi dei solitari, entrambi condannati dalla vita che si sono scelti ad essere soli e dannati, hanno in realtà più cose in comune di quanto pensino all’inizio e sicuramente in altri frangenti sarebbero stati grandi amici. La vita però li ha messi uno di fronte all’altro in modo inequivocabile e costretti a combattersi.

Al Pacino fu semplicemente straordinario nel portare sullo schermo un uomo distrutto, schiavizzato da un lavoro che è tutto quello che ha o che vuole, incapace di avere una vera vita privata, di trovare un equilibrio tra il mondo dei morti con cui vuole vivere e quello dei vivi dove non vuole stare e non sa chi è. Se Heat ebbe l’enorme successo di pubblico e critica, lo dovette proprio a due attori che come nessun altro hanno saputo nella loro carriera interpretare le mille sfumature spezzate dell’animo umano, ottimamente rese in Italia anche in questo film da un doppiaggio di Giancarlo Giannini e Ferruccio Amendola divenuto anch’esso leggenda.

Al Pacino è il colonnello Frank Slade in Scent of a Woman – Profumo di donna

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Il grande Dino Risi nel 1974 girò un film triste, intelligente e disperato, dal titolo Profumo di Donna, incentrato sulla strana amicizia tra il Capitano in pensione Fausto Consolo (Vittorio Gassman) reso cieco da un incidente e la giovane recluta Giovanni Bertazzi (Alessandro Momo), incaricato di accompagnarlo nel suo lungo viaggio a Napoli. Il film ebbe un enorme successo di pubblico e critica, fruttando a Gassman il premio a Cannes come miglior attore e due nominations agli Oscar.

Nel 1992 Martin Brest creò un remake che, se possibile, toccò vette ancora più alte rispetto a quelle del grande Risi (ebbene si), con Al Pacino nei panni dell’istrionico, cinico, disperato e instabile Tenente Colonnello Frank Slade, cieco e attaccato all’alcool. Ad accompagnarlo durante il weekend del Ringraziamento c’è un giovane studente di nome Charlie Simms (Chris O’Donnell), ragazzo coscienzioso, onesto e un po’ ingenuo. Durante il viaggio assieme ognuno conoscerà tutto dell’altro, i segreti, le insicurezze, i sogni…alla fine nessuno dei due sarà più lo stesso, ma sopratutto entrambi si saranno aiutati a vicenda nel risolvere i loro problemi e ad affrontare le loro paure.

Al Pacino fu assolutamente straordinario nell’interpretare un personaggio menomato da una cecità che non accetta e da cui vuole scappare nel modo più tragico, capace di mutare da un momento all’altro, diventando di volta in volta cavalleresco, autoironico, sgarbato, arrogante, gentile…leggendaria è rimasta la sua arringa presso l’Aula Magna del prestigioso College dove Charlie è sul banco degli imputati. Il fantastico doppiaggio di Giannini non toglie nulla alla bellezza dell’originale (anzi) e rappresenta uno dei monologhi più importanti mai sentiti in un film, sincero e tranchant verso l’arrivismo e l’opportunismo che rendono certe realtà accademiche delle vere e proprie tane di serpenti da sempre. Anticlassista, appassionato, coraggioso e carismatico, il suo Colonnello Frank Slade colpì al cuore non solo il pubblico ma anche la critica, che giustamente gli assegnò il più alto riconoscimento: L‘Oscar quale Miglior Attore Protagonista nello stesso anno del Charlie Chaplin di Robert Downey Jr., del Clint Eastwood de Gli Spietati, di Steven Rea per La Moglie del Soldato e di Denzel Washington per Malcolm X.

Tutti loro dovettero oggettivamente inchinarsi a quella che possiamo definire come una delle più difficili e allo stesso tempo affascinanti performance attoriali che siano mai viste sul grande schermo, premiata con un Oscar strameritato dopo ben 4 nominations che sicuramente potevano e dovevano avere ben altra fortuna. Al Pacino stesso durante il suo discorso di premiazione si dimostrò molto nervoso ed emozionato, sicuro com’era di non vincere neppure questa volta!

Tony D’Amato in Ogni maledetta domenica

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Nessuno si aspettava che Oliver Stone facesse un film come Ogni Maledetta Domenica in quel 1999. Il grande regista aveva da poco realizzato uno dei suoi migliori political movies (Nixon) e un noir atipico e disturbante (U-Turn), ma quando si fece strada la notizia che il regista di Platoon e Wall Street stava creando un lungometraggio interamente dedicato al Football americano…beh tutti capirono che stava per uscire qualcosa di unico, di irripetibile. E se ciò si avverò, molto del merito andò a sicuramente all’interpretazione di Al Pacino, per quanto naturalmente anche il resto del cast composto da Cameron Diaz, Dennis Quaid, James Woods, Jamie Foxx (lanciato proprio da questo film) e da uno sterminato numero di rappers e veri giocatori della NFL, fosse assolutamente perfetto e diretto in modo egregio.

Tuttavia a conti fatti il vero protagonista appare essere non il giovane, prima sconosciuto, poi avvelenato dalla fama ed infine ravveduto giovane asso dei Miami Sharks Willie Beamen (Jamie Foxx), quanto il vecchio, disilluso ma carismatico Coach Tony D’Amato, che permise ad Al Pacino di legarsi in modo indissolubile a quello che possiamo definire senza ombra di dubbio il miglior ritratto di un allenatore mai visto in un film a memoria d’uomo. Stretto tra la morsa di una dirigenza spietata, sleale e che pensa solo ai soldi da una parte, e una squadra in crisi di risultati e identità, salvata da un giovane astro nascente indocile dall’altra, D’Amato si troverà a dover improvvisare e mettersi in gioco per trovare il bandolo della matassa. Lo farà sopratutto nel finale di stagione, quando si prenderà la rivincita sulla sorte e sulla sua disastrata vita personale, toccando le corde giuste dei suoi giocatori con un discorso che è, a tutti gli effetti, il miglior monologo mai visto in un film sullo sport, diventato non solo leggenda, ma addirittura punto di riferimento tra gli allenatori, gli atleti e gli appassionati di ogni disciplina di tutto il mondo.

“O emergiamo come collettivo…o saremo distrutti individualmente!” questa frase pronunciata da un Al Pacino doppiato ancora una volta in modo strabiliante da Giancarlo Giannini, chi gioca in sport di squadra l’avrà sentita una milionata di volte. Così come ogni allenatore avrà sognato di trasmettere la stessa carica che Al Pacino trasmette ai suoi giocatori con delle identiche, ispiratissime parole…tuttavia il film di Stone e il personaggio di Al Pacino portano con sé molto di più di quello che appare.

D’Amato infatti rappresenta la vecchia America, quella onesta, chiara, leale, quella delle strette di mano tra uomini che si guardano negli occhi, per i quali la parola data, l’onore, il rispetto e la felicità sono largamente preferibili al successo, alla fama, ai soldi, all’egocentrismo imperante che trasforma signori nessuno in idoli e idoli in signori nessuno per la gioia del crasso pubblico televisivo di oggi. Shakesperiano nella sua caduta e rinascita, legato ad un iter narrativo che glorifica e condanna allo stesso tempo la truculenta cultura sportiva americana e i suoi totem, il Coach Tony D’Amato vive in un Al Pacino che sa alternare in modo principesco forza e debolezza, fragilità e determinazione, saggezza ed ingenuità.

Alla fin fine l’unica morale, l’unica cosa che conta per un allenatore, per Tony non è che tutti facciano ciò che dice in campo, quanto che imparino dal campo lezioni sulla vita, sopratutto che chi è stato con lui la insegni a sua volta, come testimoniato nel bellissimo dialogo tra Luther “Shark” Lavay (interpretato dal più grande difensore NFL di tutti i tempi Lawrence Taylor) e un Jamie Foxx sperduto e arrogante. Le parole escono dalla bocca di Luther ma hanno con sé il suono e il sapore della roca e spesso alcolizzata voce del vecchio Tony D’Amato.

Al Pacino è John Milton/Satana nel film L’avvocato del diavolo

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Satana, Lucifero, Il Principe delle Tenebre o come lo si voglia chiamare, è stato interpretato da un numero sterminato di attori ed anche attrici. Personaggio mitologico tra i più interessanti, complessi, affascinanti ed amati (si ammettiamolo!), è stato associato al viso di star del calibro di Bob de Niro, Ewan McGregor, Peter Stormare, Viggo Mortensen, Tim Curry, Gabriel Byrne, Walter Huston, Tom Waits, Vincent Price, Elizabeth Hurley, Rosalinda Cenelentano o Malcolm McDowell.

Tuttavia al terzo posto della nostra classifica troviamo proprio l’interpretazione del nostro Al Pacino, che ancora oggi fa in modo che l’Avvocato del Diavolo sia uno dei film sul soprannaturale più famosi, popolari e celebrati di sempre. Protagonista è il dotatissimo ed ambizioso avvocato della Florida Kevin Lomax (Keanu Reeves), che reduce da una vittoria quasi impossibile in favore di un pedofilo palesemente colpevole, si vede recapitare un invito da parte di un importantissimo studio legale di New York, capitanato dal misterioso John Milton, uomo fascinoso, divertente e sagace.

Giunto nella Grande Mela, Lomax incontra Milton ed in breve ne viene talmente affascinato e conquistato, tanto da dare sempre più importanza al suo mentore, al lavoro e alle sue ambizioni, trascurando la moglie Mary Ann (Charlize Theron), che rimane sempre più preda di incubi e terrificanti allucinazioni che ne sconvolgono l’equilibrio psico-fisico. In breve Lomax comincerà a comprendere che Milton non è il brillante boss, ironico libertino e spregiudicato uomo di mondo che credeva, ma il padre che non aveva mai conosciuto e sopratutto (cosetta da niente!) il Principe delle Tenebre per eccellenza.

Il film di Taylor Hackford divise la critica ma ebbe un successo strepitoso al botteghino, grazie al dualismo tra il giovane, rampante e lanciatissimo Keanu Reeves (che accettò di ridursi l’ingaggio pur di lavorare con Al Pacino) e il divo italo-americano, che per prepararsi alla parte molto si ispirò all’interpretazione di Walter Huston in L’Oro del Demonio del 1941, per quanto tutto il film sia zeppo di riferimenti alla Divina Commedia di Dante Alighieri, alle opere di William Blake e al Paradiso Perduto di John Milton (da cui il nome del personaggio del nostro Al). Il risultato fu sicuramente il Satana più affascinante, divertente, carismatico e straordinario che il pubblico avesse mai visto, ma è troppo riduttivo pensare che il film fosse semplicemente il contenitore per un Al Pacino in grado di svettare grazie ad un monologo finale divenuto un cult.

Al Pacino infatti fa del suo Satana un personaggio straordinariamente libero, egoista, viscerale e sincero nell’indicarci i nostri vizi, le nostre colpe, nel puntare il dito verso la straordinaria capacità dell’uomo di addossare agli altri colpe e peccati che in realtà hanno origine dalla propria cupidigia, dal proprio appetito insaziabile di piaceri, potere e prestigio. Il vero nemico alla fin fine non è certo questo Satana che, in fondo, ama l’uomo quasi quanto odia quel Dio che lo ha schiacciato e sconfitto. Il vero nemico di Lomax è Lomax stesso, siamo noi, che mettiamo il successo davanti alla felicità, i beni davanti alle persone, la lussuria davanti all’amore e gli appetiti davanti ai sogni.

Il divo italo americano fu sensazionale, magnetico, superbo e nonostante in carriera abbia sicuramente toccato vette anche più alte con la sua recitazione in altri film di cui abbiamo già parlato ed in altri che non sono in questa lista, il personaggio di Satana ne L’Avvocato del Diavolo merita di stare al terzo posto tra quelli più iconici nella carriera del grande attore.

Le prime due posizioni del resto, sono a tutti gli effetti inattaccabili.

Al Pacino e il suo Tony Montana nel film Scarface

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Brian De Palma ha saputo regalare al pubblico opere cinematografiche innovative, potenti e permeate di un profondo pessimismo e con una visione del mondo molto radicale, il tutto al servizio di grandi attori ed interpreti. Ma nessuno dei suoi film ha stupito così tanto il pubblico ed ha avuto un impatto culturale così profondo come Scarface, girato nel 1983 e sceneggiato nientemeno che da Oliver Stone. Remake dell’omonimo capolavoro di Howard Hawks del 1932, non riprendeva però le gesta del famigerato Al Capone, quanto quelle immaginifiche di uno dei tanti esuli cubani arrivati a Miami sulle ali della povertà  e deciso a diventare qualcuno: Tony Montana.

Il cinema aveva visto tantissimi gangsters e banditi prima di quel 1983, ma nessuno aveva prima di allora avuto l’immensa forza viscerale, il carisma, la violenza e le debolezze che Al Pacino seppe comunicare con questo piccolo delinquente che, seguendo il suo istinto e spinto da un’ambizione sconfinata, diviene in breve un Piccolo Cesare del narcotraffico. Vendicativo, volgare, pacchiano, narciso ma dotato di una forza interiore quasi inesauribile, Tony Montana stregò gli spettatori di tutto il mondo con il suo coraggio al limite della follia, con la sua mente disturbata da incestuosi pensieri per la sorella Gina (Mary Elizabeth Mastrantonio) e da una paranoica diffidenza verso tutto e tutti, con la sola eccezione dell’amico Manolo Ribera (Steven Bauer) e della bella e fredda Elvira Hancock (Michelle Pfeiffer).

Al Pacino aveva interpretato altri personaggi di grande carisma e fascino, ma nessuno poté negare che fosse praticamente diventato un tutt’uno con Tony, che ogni suo gesto, parola e azione rispecchiassero appieno la mentalità criminale, nella sua brutale, oscura ma fascinosa promessa di ricchezza, riscatto e salvezza. La stessa che del resto in quegli anni aveva portato moltissimi disperati, morti di fame e ragazzi di strada ad ingrossare le fila del narcotraffico, con la vana speranza di riscattare una vita fatta di stenti, povertà e miseria, spesso a pochi passi da dove i signori della droga facevano sfoggio di tutto quello che il denaro facile più procurare. E nessuno, né prima né dopo Tony Montana, ha mai saputo impersonificare tale desiderio di riscatto, mostrare il lato oscuro del tanto decantato American Dream di cui Tony Montana rappresenta in tutto e per tutto la decostruzione.

Al Pacino si allenò duramente con il campione di boxe Roberto Duran, al quale tra l’altro si ispirò per lo stile aggressivo e sopra le righe di Tony, che spesso lo aveva messo nei guai con la stampa e che ne faceva uno dei personaggi più controversi dello sport di quegli anni. Tempo dopo Al Pacino avrebbe confessato di aver preso molto anche dal personaggio interpretato da Meryl Streep in La Scelta di Sophie; tuttavia a conti fatti da molti punti di vista il personaggio di Tony più di tutto appare l’alter ego di uno dei più grandi eroi della storia del cinema: Rocky Balboa. Come il celebre pugile italo-americano infatti, anche Tony viene dal niente, anche lui è in cerca di riscatto, è considerato da tutti un fallito, anzi è a conti fatti un vero e proprio invisibile come milioni di altri ma aspira a dimostrare il contrario. Con il suo coraggio, spirito di iniziativa e volontà anche lui abbraccia il successo della terra promessa, dopo mille umiliazioni; peccato che tale “successo” passi attraverso il mondo del crimine, che in fin dei conti lo renda sempre più mostruoso…ma si sa, il sogno americano è anche questo.

Gli abiti, gli oggetti, la cocaina, le donne, le macchine, la pacchianissima villa…tutto diventa il prolungamento dell’ego di un uomo insaziabile, incontentabile ma che resta sempre fedele a sé stesso, ad un suo codice d’onore, sempre genuino, di base sempre lo stesso cane randagio ringhiante. L’impatto nell’immaginario collettivo di Tony Montana è praticamente incalcolabile, dal momento che persino i veri criminali ne hanno tratto ispirazione, lo hanno eletto a sorta di totem, di modello di vita, come nel caso del celebre boss casalese Walter Schiavone, che si fece costruire una villa uguale a quella in cui Tony, all’apice del potere, dominava sul suo impero del crimine.

La stessa villa è dove Tony, in un finale divenuto immortale, troverà la fine alla sua maniera, immerso nel suo sangue e in quello dei suoi nemici, stordito e trasfigurato dalla droga, eppure proprio per questo ancora più sé stesso, ancora più Tony Montana, fino all’ultimo. E il fatto che non sia lui in cima alla nostra classifica, è perché il primo posto è occupato da uno dei personaggi più importanti della storia del cinema, da colui il quale ha consegnato Al Pacino alla leggenda.

Michael Corleone in Il Padrino

Quando nel 1972 Francis Ford Coppola cominciò a lavorare per portare sullo schermo l’epopea de Il Padrino (tratta dai romanzi di Mario Puzo), dimostrò subito di avere delle idee molto chiare sul cast, che però non incontrarono il favore della Paramount, decisa ad imporre le sue scelte. Per la parte di Don Vito Corleone (il padre del protagonista e capofamiglia), i produttori infatti avevano pensato a Burt Lancaster, Ernenst Borgnine, Orson Welles o addirittura il nostro Gian Maria Volonté (forse il più azzeccato non trovate?). Ma Coppola fu irremovibile nel voler Marlon Brando, che convinse la produzione con un provino magnetico ed un look studiatissimo, ma dovette comunque firmare un contratto in cui si impegnava a non creare problemi alla produzione e a tenere un comportamento consono durante le riprese.

Per la parte di Michael Corleone però, Coppola dovette lottare molto più strenuamente, dal momento che per interpretare il protagonista di un film che avrebbe segnato la storia del cinema, la Paramount aveva in mente ben altri nomi…

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All’epoca Al Pacino infatti non era nessuno, solo Coppola ne aveva intuito le potenzialità vedendolo in Panico a Needle Park, dove interpretava un tossico, e lottò strenuamente, cassando tutte le altre candidature che comprendevano Jack Nicholson, Dustin Hoffman, Ryan O’Neal e Robert Redford, spingendo molto sul fatto che nessuno di loro aveva lineamenti abbastanza italiani per essere credibile. Alla fine i produttori si convinsero e…beh il resto è storia.

Fin dal suo debutto Il Padrino fu indicato da critica e pubblico come uno dei più straordinari film mai fatti, un capolavoro di regia, sceneggiatura, delle maestranze e, sopratutto di recitazione. E persino i più scettici dovettero ammettere che quel giovane e sconosciuto attore italo-americano era stato in grado di reggere il confronto persino con un mostro del livello di Marlon Brando, facendo di Michael Corleone già in quel primo episodio uno dei personaggi più complessi, sfaccettati, profondi e accattivanti che si fossero mai visti.

Il Padrino era qualcosa di più di un film sulla Mafia, su Cosa Nostra, era un film sulla società americana, ai tempi in cui i clan malavitosi e il governo statunitense erano un tutt’uno, legati a doppio filo da comuni interessi e da una conveniente alleanza, erano gli anni in cui dalle sigarette, alla prostituzione al racket, la mafia cominciava ad intuire le potenzialità dietro il commercio della droga. Ma più di ogni altra cosa, la saga del Padrino era un dramma omerico e shakespeariano trasportato in un mondo fatto di sospetti, infedeltà, vendetta, morte, solitudine e spietatezza. E nessuno seppe farsi portatore di tutto questo quanto il Michael Corleone di Al Pacino, semplicemente impareggiabile nel disegnare il percorso esistenziale di un giovane reduce di guerra che si trova suo malgrado a dover fare i conti con un mondo dal quale il padre voleva tenerlo distante, forse conscio di quanto (rispetto al collerico Sonny o al debole Fredo) Michael fosse tagliato per la vita da uomo d’onore, quanto dentro di sé nascondesse una spietatezza, un’astuzia e una freddezza che solo lui possedeva.

Ciò che Al Pacino fece poi negli altri due capitoli, Il Padrino Parte II e Il Padrino Parte III, non fecero che confermare che solo lui avrebbe potuto interpretare Michael rendendolo il Boss mafioso più credibile, inquietante e realistico mai visto in un film. Ironia del cinema, la sua interpretazione e quella di Brando hanno dato il via ad un’infinita serie di parodie, imitazioni e copie, che sono solo l’ennesima testimonianza di quanto questo personaggio sia entrato nel cuore del pubblico cinematografico.

Tutti e tre i film ci mostrarono diversi lati del talento di Al Pacino, capace di interpretare una metamorfosi esistenziale assolutamente incredibile in modo perfetto, umano, convincente, mostrando il percorso di un giovane Boss che nel giro di poco tempo abbraccia totalmente l’oscuro mondo della Mafia, dimostrando un’ambizione, una lucidità e un’intelligenza che in breve tempo lo porteranno ai vertici, gli permetteranno di sconfiggere ogni nemico, salvo poi diventare malinconico, pentito, fatalista, distrutto e spezzato nell’animo. Le sue scelte, l’aver abbracciato la cultura della morte della Mafia, gli costeranno nel tempo parte la sua anima, lo vedranno costretto a far morire o a veder morire alleati, amici, parenti, compresi i due fratelli Sonny e Fredo, il primo per mano dei nemici, il secondo per mano sua.

Alla fine di questo Focus su Al Pacino, di fronte a tanta maestria e talento, non si può negare come nonostante abbia interpretato molti personaggi divenuti leggenda, il suo Michael Corleone è quello che più gli è entrato sotto la pelle, a cui viene associato in modo immediato. Grazie a questo personaggio e ai tre film della saga sulla famiglia mafiosa più famosa di sempre, Al Pacino ha potuto mostrare al mondo le mille diverse sfumature del suo talento, fatto non solo di parole, ma sopratutto di sguardi, mimica, di un’espressività viscerale e perfetta. Non vi può essere prova migliore di tutto questo se non riguardare lo struggente, terribile e bellissimo finale del Il Padrino Parte III,  in cui il vecchio Michael, sulle meravigliose note di Mascagni, mostra la sua anima spezzata e distrutta dalla morte della figlia, in un urlo muto che possiamo considerare la performance attoriale più riuscita di uno degli attori più amati e celebrati di sempre.