Editoriale | Elegia Americana di Ron Howard, oggi, su Netflix

Elegia Americana è il debutto su Netflix di Ron Howard, che nel 2020 sforna un altro esempio della sua tendenza a trasformare storie di vita vera in metafore odissiache, semplicistiche e irreali della superiorità dell'uomo sul destino avverso. Qual è il senso oggi?

Siamo nell’anno del signore 1997, un’era di prosperità. La magnificenza del Creato, l’abbondanza della Terra, il miracolo della vita moderna non sono mai stati così splendenti. Eppure, per qualcuno, il Sogno Americano, l’unica speranza del nostro popolo, resta un miraggio. Anche se, amareggiati, ci scagliamo contro le ingiustizie, perfino contro Dio, anche se gli altri scherniscono la nostra fede, teniamoci stretti la nostra fiducia non solo in Dio, ma in noi stessi, nella nostra tempra. Che la nostra capacità di alzarci, sì, di volare, tenga in volo le future generazioni finché non raggiungeranno la fede. Che la nostra fede rimanga solida.

Si, è il sermone di un pastore, intro di Elegia Americana di Ron Howard, avete presente? Il film con Gleen Close e Amy Adams che sembrano uscite da un soggiorno nella roulotte di Trevor di GTA V prima che si trasferisse a Los Santos. Ecco, al suo interno non c’è solo il senso di tutto quanto il film, ma c’è anche la risposta a tutti i dubbi riguardo la potenza del suo messaggio, le sue intenzioni politiche, reali o presunte e, cosa infinitamente più importante, il suo significato oggi, nel 2020. Su Netflix.

Le memorie di un “wanna be hillbilly”

Elegia Americana, cinematographe.it

Elegia Americana è la brillante traduzione italiana di Hillbilly Elegy: A Memoir of a Family and Culture in Crisis (dove il termine “hillbilly” indica il bifolco, il montanaro con la pronuncia sfiatata), le memorie di J. D. Vance, che poi tanto hillbilly manco è, visto che è cresciuto nella periferia di Augusta, Ohio. Un neo che Howard ci tiene a correggere dopo neanche 3 minuti di film: “La mia vera casa sono le colline di Jackson, Kentucky. Tra queste vallate ho passato le mie estati. La parte migliore della mia infanzia.“, una puntualizzazione rumorosa e, col senno di poi, già di per sé chiarificatrice delle intenzioni di un film che dovrebbe essere la trasposizione di un’autobiografia. Perché una frase così e così presto in un biopic? Prima risposta: perché non lo è.

Vance è un ex marine laureato, in giurisprudenza a Yale, proveniente da una famiglia che definire disfunzionale è dir poco e che ora sta facendo un pensiero su un posticino tra i senatori di parte repubblicana. Il suo libro uscì all’epoca delle elezioni di Trump, incontrando il favore e gli interessi di quella grande fetta d’America che vedeva nel Tycoon la possibilità di tornare ai vecchi valori. Quelli del patriottismo, del sudore della fronte e della fede in Dio. Un caso fortunato, anche perché sempre di memorie parliamo, certamente non di un manifesto politico. Eppure, complice un po’ l’enorme successo di pubblico e un po’ perché ormai sulle bandiere i simboli politici non esistono più, non è parso vero alla fetta sopracitata di poter avere un grande romanzo americano personale, in grado di rappresentare la propria rabbia in un così crudo scorcio della realtà della classe operaia bianca a lungo dimenticata.

Anche se forse la maggior parte delle distorsioni legate al successo politico del libro è da ricercare più nei motivi di interesse di personaggi di parte democratica come Oprah Winfrey e Hillary Clinton.

A ogni modo, ecco che il racconto della vita del rotondo e simpatico J. D. da bell’esempio di scalata verso il successo, partita da una realtà povera e affetta da problemi importanti come quello della droga, diventa improvvisamente Elegia Americana. Un film stantio, ottuso e anche un po’ grossolano sull’espressione del sogno americano negli anni Duemila, superata sia agli occhi dei boomer che a quelli dei millenials e, speriamo, anche a quelli della generazione post. Una caricatura sia del messaggio che di coloro a cui è riferito. Tutto ciò per una storia in cui, probabilmente (da quanto traspare nel film), l’unica cosa veramente rilevante a livello politico è rintracciabile nella denuncia dell’assenza di un adeguato sistema assistenzialista per le realtà più disagiate nel panorama americano odierno.

Ron Howard – L’uomo giusto al posto giusto

Ron Howard, cinematographe.it

Howard dal canto suo è stato perfetto per il compito. Da Beautiful Mind fino a Cinderella Man (Apollo 13 e Rush hanno un nucleo drammatico talmente importante da renderli parte di un discorso diverso, mentre The Heart of the Sea prova a fare un percorso inverso, ma sfocia in nevrosi), la filmografia del regista dell’Oklahoma testimonia la sua “abilità” nel prendere storie vere e trasformarle in racconti ideologici irreali fino a diventare irrealistici, che appiattiscono il succo di storia e sentimento, sfociando in prodotto commerciale da piazzare in vetrina. E vende anche bene. Howard c’ha vinto due Oscar con la storia di John Nash.

Qui troviamo il senso cinematografico? Seconda risposta: Ni. Lo troviamo quando alla sceneggiatura ci pensa Vanessa Taylor, la penna de La Forma dell’Acqua, che di Oscar vinti per storie dai sentimenti a buon mercato se ne intende. È bravissima anche qua, ma ne parliamo dopo.

Questo comunque convince Glenn Close e Amy Adams che (si, l’avete letto ovunque) fanno coming out sulla loro volontà di vincere questo benedetto Oscar (con buona pace di Gwydaneth Paltrow). Premio che avrebbero meritato entrambe in passato, ma che stavolta potrebbero portare a casa solo perché la sconfitta per l’Academy è la prima caratteristica utile alla vittoria. Sono loro due le prime ballerine di questa compagnia colorata e squinternata che segue un copione molto poco credibile in cui i personaggi, quando non si lasciano andare a sproloqui o dialoghi slacciati, piangono, si disperano e si urlano in faccia. Figure mostruosamente esagerate e sovraccariche perse in un labirinto di emozioni tagliate col coltello, ma da cui si può uscire grazie alla costanza di odiare chi non sa pronunciare Mississippi, lavorare, prendere A ad algebra e aiutare la nonna a portare la spesa in casa.

Ma se Elegia Americana è così terribile e retrogrado, allora perché, Netflix? Perché?

Elegia Americana oggi

Elegia Americana, cinematographe.it

Terza risposta. Da legare alla seconda, visto che Netflix del valore commerciale deve tenere conto. Non può sempre produrre Kaufman (anche se vorremmo).

Dal punto di vista delle visualizzazioni, pare che Elegia Americana stia funzionando in rapporto al film che è. Un po’ per i nomi che si porta dietro, ma anche perché la scrittura della Taylor è riuscita a prendere l’idea di Howard, la sua regia e il suo modo di dirigere gli attori e l’ha posizionato in un contesto ad hoc per un prodotto cinematografico che presuppone una fruizione domestica e che, più in generale, incontra i gusti dello spettatore attuale. A cui piace il dramma alterato, ma controllato, poco invadente (perché questo è talmente estremo da non esserlo) e dall’eco esagerato. L’organizzazione della storia fa la sua dimensione, ne segna i confini e regola l’affiorare del linguaggio didascalico howardiano (la mano di mamma Amy), l’esagerazione della recitazione e le caratteristiche delle tappe che segnano questa scalata verso l’alto partendo dagli inferi.

Anche perché, tolto questo aspetto, cosa funziona del film? Di certo non la visione del mondo che esprime. Smentita dal film stesso tra l’altro. Pensate ai dualismi. Legislano sulla realtà descritta eppure sono rinnegati sia per bocca di nonna Close che, tra una sigaretta e l’altra, si lascia andare a quella assurda divisione del mondo in tre (non due) parti: chi è un bravo Terminator, chi è un pessimo Terminator e chi “so and so”; sia dalla giravolta di J. D., che parte dal mondo dei ricchi che lo insultano perché è bifolco per poi tornarci (e chi mai ha avuto dubbi) per un colloquio di lavoro che gli stessi ricchi hanno comunque deciso di concedergli. I ricchi cittadini istruiti sono dei buoni razzisti. I poveri e burberi montanari (o discendenti) sono cattivi razzisti, ma anche eroi americani. Un tentativo saccente di raccontare una realtà che trova un senso logico solo nell’autodenuncia.

Elegia Americana, cinematographe.it

E allora forse ecco il senso. Il libro uscì all’alba dell’era trumpiana, il film proprio all’indomani della sua sconfitta a favore di Biden. Abbiamo detto che il film è politico, probabilmente più del libro dato il genere, allora forse l’intento è contrario rispetto a quello manifestato. Forse siamo di fronte a una denuncia di una rappresentazione fatta proprio mettendola in bella vista. “Tenetevi alla larga da questa visione”, forse il senso è questo. Forse Taylor sta veramente più avanti di tutti. Forse no. Noi, però, teniamoci alla larga.