Gravity e Interstellar: musica per lo spazio

Anche noi di Cinematographe ci avevamo sperato fino all’ultimo nei nostri pronostici, ma Interstellar – già abbastanza snobbato in questa stagione di premi – non è riuscito a portarsi a casa la statuetta per la Migliore colonna sonora all’87esima edizione degli Oscar, accaparrandosi solo quella per i Migliori effetti speciali. Nonostante la vittoria agli IFMCA Awards, decretata da uno staff di critici specializzati in musica per film, agli Academy ha vinto la colonna sonora realizzata da Alexandre Desplat (primo Oscar dopo tante nomination) per Grand Budapest Hotel, una partitura di sicuro frizzante, originale e ironica come il film, ma che ha diviso il pubblico: basta dare un’occhiata ai tweet e ai commenti sulle pagine social degli Academy per vedere quante critiche siano piovute per la mancata premiazione di Hans Zimmer.

Interstellar ci porta subito al paragone con un film che, al contrario, ha spopolato nei premi dello scorso anno: Gravity di Alfonso Cuarón. I due film, sebbene molto diversi tra loro, hanno in comune la fantascienza e l’ambientazione nello spazio, ed hanno alcuni punti di contatto anche nelle scelte compositive. A differenza di Interstellar, Gravity si era portato a casa anche l’Oscar per la Migliore colonna sonora, realizzata da Steven Price (già editor ne Il Signore degli Anelli e Batman Begins).

Innanzitutto, entrambe le colonne sonore sono caratterizzate da una massiccia elaborazione elettronica, alternando parti più sperimentali a momenti lirici e tradizionali. In particolare, la musica di Gravity si divide tra una possibile descrizione degli effetti sonori di quanto avviene nello spazio, con passaggi di tensione, dissonanza, anticipazione e crescendo, e l’accompagnamento delle emozioni della protagonista Ryan Stone (Sandra Bullock) – e quindi anche delle nostre, riuscendo particolarmente bene in questo compito: nel video qui sotto sentiamo il momento in cui Ryan chiede all’ormai senza vita Matt Kowalski (George Clooney) di dire a sua figlia (morta a quattro anni) che la sua scarpa rossa era sotto il letto, e che le vuole molto bene. Questo tema, presentato già in altri punti del film, si trasforma ancora nella sequenza finale, quando Ryan riesce a salvarsi, diventando incalzante, teso e tagliente negli ultimi attimi dell’atterraggio con il paracadute.

In Interstellar forse mancano dei momenti in cui la musica cerca prepotentemente una funzione empatica, che sappia trascinare da sé l’emozione dello spettatore, ma la cura dei dettagli di Hans Zimmer è davvero spettacolare, e già questo aspetto da solo accompagna le nostre emozioni senza mai separare la musica dalle relative immagini. Le “galleggianti” sinfonie eteree di Gravity, punteggiate dai bassi profondi e dalle manipolazioni elettroniche cui si accennava sopra, nella partitura di Interstellar si snodano lungo tutta la pellicola in modo assolutamente coerente e mai stancante (forse anche perché Zimmer iniziò a lavorare alla colonna sonora con molto anticipo rispetto alle riprese). Il suono del pianoforte, degli archi e soprattutto dell’organo – scelta inconsueta e assolutamente perfetta – si avviluppano in temi che continuano a ripetersi, sulle basi del minimalismo e con poca prefigurazione armonica: è la vastità dell’universo.

Certamente, nella ripetizione del tema embrionale principale, sta l’amore di Cooper (Matthew McConaughey) per la figlia Murph (Mackenzie Foy / Jessica Chastain), che fa da filo conduttore in tutto il film, così come in Gravity i pensieri di Ryan per la figlia erano delineati dalla musica più toccante. Tornando al minimalismo e alla sperimentazione, vediamo che il lavoro di Price per Gravity sta un gradino sotto a quello di Interstellar – non per qualità, ma per concezione essenziale: se in quest’ultimo è proprio l’elemento su cui si fonda tutta la colonna sonora, in Gravity è la descrizione adatta per le scene d’azione.

I sintetizzatori e la manipolazione elettronica sono molto evidenti e danno quel tocco “ovattato” che sta bene al film; sono state invece scartate le percussioni, per evitare una musica troppo tipica da film d’azione. In Interstellar, di sicuro, la gamma di colori è più vasta, ed aiuta a creare un vero e proprio senso di altro, un mondo diverso (che in effetti la NASA sta cercando), una continua trepidazione. Se, allora, Gravity inizia a sperimentare, ma cerca ancora l’emozione attraverso sviluppi più tradizionali, Interstellar fa del minimalismo e dell’innovazione la sua fonte, citando sì dei classici come 2001: Odissea nello spazio e, soprattutto, Koyaanisqatsi di Philip Glass, ma approdando a mete lontane che, forse, i non abituati a questo tipo di musica non possono apprezzare pienamente. Ma è davvero semplice provare ad approcciarsi all’esperienza che questa colonna sonora ci offre: in fondo, è una vibrante ed indeterminata poesia, che si propaga come una radiazione.