The Grand Budapest Hotel: recensione

Wes Anderson è uno dei registi più apprezzati degli ultimi anni, per la sua originalità narrativa e soprattutto visiva, e The Grand Budapest Hotel ne è la conferma.
The Grand Budapest Hotel è come se assumesse l’originalità geniale di Anderson, moltiplicata quasi all’infinito: il film si articola per 4 epoche e l’hotel assume 3 connotazioni visive diverse, a seconda dell’evoluzione della storia. Un film realizzato a scatole cinesi, insomma.
Dai giorni nostri, dove si vede una ragazzina appendere la chiave dell’albergo su un monumento raffigurante lo scrittore del libro che sta leggendo sul Grand Budapest Hotel, di colpo, lo spettatore viene proiettato, tramite flashback, presumibilmente a 25/30 anni prima, quando lo scrittore narra di come sia nato l’interesse e la volontà di scrivere un racconto su questo hotel.
Altro flashback, altra epoca: lo spettatore, ormai, è stato catapultato all’interno del racconto, senza essere mai invadente alla storia, ma portato, dalle mani di chi di dovere, a vivere la storia, anche se non è sua e non ne è protagonista.

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Wes Anderson prende lo spettatore e lo gira e lo volta come un pupazzetto, ma non facendogli fare giri della morte o altro ma, bensì, spostandolo continuamente tra i tre flashback principali, all’interno del racconto, per essere sempre a metà tra la spiegazione dello scrittore del romanzo (interpretato da Jude Law) che intervista un anziano chiamato Zero Moustafà (interpretato da Tony Revolori da giovane, e da F. Murray Abraham da anziano), le vicende passate della sua gioventù e le vicende del presente.
Di fatto si finisce all’ultimo flashback del film, anno 1932, che poi sarà quello fondamentale per lo sviluppo della trama; un flashback che porta lo spettatore a vivere la gioventù di Moustafa, un Lobby Boy (facchino) appena assunto al Grand Budapest Hotel e sotto l’attenta, rigida, narcisistica e amorevole direzione di Monsieur Gustave (Ralph Fiennes), che fa sempre in modo di non avere una virgola fuori posto, dal suo aspetto personale a quello dell’hotel.

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Il nocciolo principale della trama ruota attorno ad un quadro “Ragazzo con mela”, lasciato in eredità da Madame D. (interpretata da una quasi irriconoscibile Tilda Swinton), amante di M. Gustave, dal valore inestimabile, e dal figlio dell’anziana, Dmitri (Adrien Brody) che cerca di riaverlo per sé con la violenza, attuata personalmente dal suo galoppino Jopling (Willem Dafoe), con l’avvento della seconda guerra mondiale, che fa da sfondo.
Wes Anderson, con The Grand Budapest Hotel, dà ancora prova dell’originalità e dell’uso dell’ironia sottile e non fastidiosa (dato che sullo sfondo vi è comunque il tema della guerra o il tema della morte di Madame D.) e di come si sia praticamente superato, una spanna in più di Moonrise Kingdom.
La simmetria delle riprese è costante, curata quasi all’estremo, come se lo spettatore fosse all’interno di uno di quei libri pop-up per bambini che, ogni volta che si aprono, fanno uscire animali o edifici tridimensionali dalle pagine.
Tutto è girato con un occhio esterno, mai interno al personaggio; la caratteristica visiva è talmente curata (anche troppo) che quasi tralascia la sceneggiatura (che per la prima volta Wes Anderson realizza da solo), tralasciando e affidando alle battute finali la spiegazione del perché Moustafà sarà il futuro proprietario dell’hotel stesso, e della sua storia d’amore con la fornaia Agatha.
Le interpretazioni sono eccelse ed ironiche, un cast stellare con attori che si cimentano in ruoli che non ti aspetteresti (anche se per alcuni potrebbero diventare prevedibili per chi ha già visto film di Anderson); Ralph Fiennes realizza l’interpretazione che non ti aspetti (alla prima collaborazione con Anderson), da mentore sopra le righe, diligente, letterato, poetico e dal cuore d’oro.
Quasi è inutile parlare della costante frequenza degli attori, amici del regista, che compaiono in quasi ogni suo film: Owen Wilson e Bill Murray tra tutti, e poi Edward Norton, Tilda Swinton, Adrien Brody, Willem Dafoe, Jason Schwartzman, Jeff Goldblum.

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Un film, nel complesso, che raggiunge il livello più alto dello stile di Anderson (uno stile che si ama o non si ama), specialmente a livello visivo, che sprizza energia e accuratezza da tutti i frame; e che merita di essere visto almeno una volta.
The Grand Budapest Hotel, dopo aver vinto il Golden Globe come Miglior Film o Commedia Musicale, è stato nominato a nove premi Oscar, come: Miglior Film (Wes Anderson, Scott Rudin, Steven Rales, Jeremy Dawson), Miglior Regia (Wes Anderson), Miglior Sceneggiatura Originale (Wes Anderson), Miglior Fotografia (Robert Yeoman), Miglior Colonna Sonora (Alexandre Desplat), Miglior Scenografia (Adam Stockhausen, Anna Pinnock), Migliori Costumi (alla nostra italianissima Milena Canonero), Miglior Montaggio (Barney Pilling), Miglior Trucco (Frances Hannon, Mark Coulier).

The Grand Budapest Hotel è un film di scritto, diretto e prodotto da Wes Anderson, con l’interpretazione di Ralph Fiennes, Tony Revolori, Edward Norton, Adrien Brody, Willem Dafoe, Tilda Swinton, Bill Murray, Owen Wilson, Jude Law, F. Murray Abraham, Saoirse Ronan, Jason Schwartzman, Léa Seydoux, Tom Wilkinson, Bob Balaban, Jeff Glodblum, Karl Markovics.

Giudizio Cinematographe

Regia - 4.5
Sceneggiatura - 4.3
Fotografia - 4.1
Recitazione - 4.1
Sonoro - 4
Emozione - 4

4.2

Voto Finale