Venezia 78 – Imaculat: recensione del film di Monica Stan e George Chiper

Un racconto anestetizzato, in cui le sofferenze dei personaggi diventano pose di personaggi macchiettistici.

Imaculat rappresenta il debutto alla regia di un lungometraggio sia per Monica Stan che per George Chiper: la prima ha una formazione in psicologia e da molto tempo si dedica alla stesura di sceneggiature cinematografiche, mentre il secondo ha curato la fotografia di numerose opere, talvolta cimentandosi anche come regista di cortometraggi. La formazione di entrambi i registi si riflette nel risultato di questo film, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia 2021 in Concorso alle Giornate degli Autori. La presenza di studi psicologici è immediatamente denunciata dall’ambientazione del film e dal trattamento riservato alle dinamiche che si instaurano tra i pazienti, mentre l’attenzione all’estetica e alla fotografia di Chiper è testimoniata da una scelta sempre millimetrica delle inquadrature. Daria è una giovane ragazza alle prese con una dipendenza da eroina: quando viene rinchiusa in un centro di riabilitazione, il suo aspetto angelico la rende immune da angherie e abusi da parte degli altri pazienti. La tensione e la violenza tra le mura del centro è palpabile e Daria decide di prenderne le redini per trarne giovamento.

Imaculat: il film di Monica Stan e George Chiper gode di un impianto quasi teatrale

Imaculat - Cinematographe.it

Si potrebbe parlare di un impianto teatrale di Imaculat, in cui Ana Dumitrascu (interprete di Daria) si contraddistingue dagli altri personaggi per la flebile voce e l’aspetto pulito con cui si approccio a questa nuova esperienza, sempre più simile a una reclusione. Le inquadrature sono tutte precise e studiate al millimetro e prediligono sostare sui volti e sulle espressioni dei protagonisti. Questa insistenza su primi piani ravvicinati di volti e mani rafforzano l’idea di voler indagare al di là delle apparenze nei meccanismi innestati in questo centro di riabilitazione. Allo stesso tempo, però, il ritmo del film ne risulta decisamente rallentato, incappando anche in frequenti ripetizioni che rendono zoppicante l’incedere della storia. In altre parole, è evidente che il dato estetico prende troppo spesso il sopravvento sul senso filmico in generale, rendendo Imaculat un racconto anestetizzato, in cui le sofferenze dei personaggi diventano pose di personaggi macchiettistici e privi di quella stessa profondità tanto cercata dall’obiettivo.

Imaculat - Cinematographe.it

L’incedere lento di Imaculat si poggia anche su riflessioni e conversazioni tra Daria e i suoi compagni di permanenza nel centro, oltre che su inquadrature spesso statiche e prettamente fotografiche, giocate tutte su un cromatismo che spazia dal bianco al panna, in cui volutamente non risultano nemmeno i lineamenti degli stessi personaggi. L’indagine delle relazioni umane in un ambiente come un centro riabilitativo proviene dalla diretta esperienza di Monica Stan che alla stessa età di Daria si trovò nella sua medesima situazione, rimanendo dolorosamente colpita dai meccanismi di sopravvivenza messi in atto dai pazienti in cerca di una definitiva liberazione dai propri mostri. Il senso di reclusione non perde occasione per essere sottolineato, concentrando spesso i copri degli attori in spazi ristretti, in cui è l’obiettivo stesso a muoversi con difficoltà, come in mezzo a manifestazioni animalesche e bestiali, ben lontane dall’ideale di unità e armonia umana che ci si aspetterebbe da luoghi di recupero per persone in difficoltà. Daria si trova a combattere tra il bisogno profondamente umano di vicinanza e calore umano, per quanto illusorio ed effimero possa essere, e la necessità di mantenere un approccio lucido e freddo a questa esperienza in modo da poter continuare a discernere il bene dal male e le persone che la possono aiutare veramente da quelle che solo si millantano amiche.

Regia - 2
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 3
Recitazione - 2
Sonoro - 1
Emozione - 1

1.8