Un film fatto per bene: recensione del film da Venezia 82
Il documentario grottesco di Franco Maresco presentato in concorso alla 82ª edizione del Festival di Venezia
C’è un cinema che si costruisce mattone dopo mattone e un cinema che si sgretola già in fase preparatoria. Un film fatto per Bene – presentato in concorso alla alla 82ª edizione del Festival di Venezia – appartiene a quest’ultima categoria: un’opera che nasce per raccontare e finisce per smontare, che gioca con il suo stesso titolo e da omaggio e documentario dedicato alla figura di Carmelo Bene, si trasforma in irriverente dissertazione sul fare cinema, veleggiando in maniera anarchica tra il bene e il male dell’arte settima. Diretto da Franco Maresco e scritto insieme a Claudia Uzzo, Umberto Cantone e Francesco Guttuso, il film si presenta come mockumentary ma si comporta come un atto di sabotaggio verso ogni convenzione narrativa. Nel cast amici, sodali, freaks e volti storici dell’universo mareschiano – da Francesco Puma a Ciccio Mira – con apparizioni di Antonio Rezza e richiami a Franco Scaldati. La produzione è affidata a Lucky Red, Dugong Films ed Eolo Films, con Andrea Occhipinti a interpretare (suo malgrado) anche il ruolo del produttore esasperato che stacca la spina. Alla base, come anticipato, un progetto di film su Carmelo Bene, sull’impossibile racconto di una figura leggendaria, una ricostruzione agiografica che diviene insidia, diviene ostacolo di sé stessa. “Ogni mio film è stato una trappola, stavolta temo di non uscirne tutto intero” ha dichiarato lo stesso regista che qui deforma e racconta il cinema come suicidio estetico e grottesca resurrezione.
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Tra il male e il Bene- Il film che non si fa

La sinossi è semplice eppure continuamente sabotata: Maresco sta girando un film su Carmelo Bene ma, con il set in continua implosione tra incidenti e ritardi, costringe il produttore Occhipinti ad interrompere le riprese, causando la fuga e conseguente sparizione del regista, che inveisce al “filmicidio”. A indagare sulla sorte di Maresco è l’amico e sceneggiatore Umberto Cantone, che raccoglie testimonianze, stralci di riprese e memorie contraddittorie ed opera un’indagine che porta ad un vuoto, ad un film realizzatosi proprio nel suo non farsi. Tra rovinose cadute dei santi, partite a scacchi con la Morte, momenti scatologici e confessioni disperate, lo spettatore si muove in un labirinto metacinematografico. Ogni sequenza sembra deragliare, eppure ricompone un mosaico coerente nella sua anarchia: un mockumentary che diventa documentario del documentario, film sulla sparizione e sul fallimento, ma anche sul gesto ostinato di non smettere mai di filmare.
Dietro il gioco del titolo si nasconde il cuore tematico del film. Carmelo Bene è l’oggetto mancante, l’idolo irraggiungibile che diventa pretesto per parlare di Maresco stesso e della sua ossessione per un cinema impossibile. “Fare un film per bene” è ormai un’impresa irrealizzabile in un’industria dove, come dice il regista, “un film oggi non si nega a nessuno”. Maresco rovescia l’assunto: invece di fare un film perfetto, ne fa uno volutamente imperfetto, slabbrato, che smonta il concetto di professionalità. Il bene non è mai ciò che appare, il Bene non si può incarnare ma solo inseguire. Ne deriva una riflessione radicale sullo stato del cinema italiano: tra industria e artigianato, tra cerimonia e farsa, tra il mito di un Carmelo Bene che “sapeva volare” e la realtà di un set che a fatica cammina. La risata, spesso sguaiata, diventa l’unica catarsi possibile. Così il film non cerca la riuscita ma celebra lo scacco, non afferma ma deride, non consola ma tramortisce.
Un film fatto per bene: valutazione e conclusione
Un film fatto per Bene è l’opera più controversa e destabilizzante di Venezia 82 – perlomeno tra quelle in concorso. Un film che divide, che scandalizza, che deride fino a far ridere davvero, a tratti inaccessibile quanto necessario, l’apogeo del fare anarchico, corrosivo, disperato del suo autore. La poetica di Franco Maresco non è per tutti, non vuole esserlo; è una matrioska che ingloba frammenti, fallimenti, deliri e intuizioni, e che restituisce un ritratto di artista unico, irriducibile, tragico e comico allo stesso tempo. Dove altri inseguono l’idea di un film compiuto, Maresco sceglie di mostrarci l’incompiuto come unica possibile verità.
Un film fatto per Bene è un manifesto fuorviante sul presente del cinema italiano: non un film “per bene”, ma un film “sul Bene”, che ne evoca il fantasma per ridere della sua assenza. Un film che non promette consolazione, ma la possibilità di riconoscersi nel caos, nel grottesco, nella verità scomoda di chi guarda al mondo con disprezzo eppure non riesce a smettere di raccontarlo. Alla fine resta un’impressione: il Bene non si rappresenta, il bene non si fa, il cinema non si aggiusta. Il cinema si disfa, si sporca, si deride.