Roma FF17 – Triangle of Sadness: recensione del film di Ruben Östlund

La brillante pellicola di Robert Ostlund attinge da diversi repertori del passato per creare una arguta satira sociale, ma era necessario che durasse più di cinquanta minuti?

Triangle of Sadness è il film del regista svedese Ruben Östlund: è stato presentato a Cannes 2022, dove ha vinto la Palma d’Oro. Dopo il debutto nei cinema danesi, il 13 settembre 2022, approda nelle sale italiane dal 27 ottobre 2022 dopo il passaggio alla 17ma Festa del Cinema di Roma. Si tratta di una pellicola complessa, discussa, senza apparenti pareri concordanti: l’unico punto certo è che si tratta della prima e unica esibizione in un grande film dell’attrice Charlbi Dean, morta improvvisamente il 30 agosto 2022 a soli 32 anni. La sua performance non è più scindibile dal suo triste destino, dandole un’aura di intoccabile sacralità che avvolge tutta le pellicola.

Triangle of Sadness recensione cinematographe.t

Ruben Östlund è uno dei quei registi a cavallo tra due generazioni che riescono ad analizzare con occhio critico le perversioni dei baby boomer (generazione alla quale lui appartiene, nascendo nel 1974), dei millennal e della Gen Z. Tutta la modernità si stende come una grande scatola di acquerelli da utilizzare a proprio piacimento davanti allo sguardo creativo e acuto di un cineasta sufficientemente giovane da comprenderla e coglierla.

La creatività viene facilmente veicolata in concretezza mettendo a frutto l’esperienza maturata grazie alle prime pellicole, frizzanti di un’intelligenza intuitiva, geniale e acerba come dimostrato in Turist (2014). Triangle of Sadness è un film che aspira, infatti, proprio ad entrare nella fase matura della produzione artistica, è l’affermazione del cineasta: “Sono grande”. E il lungometraggio è davvero grande, almeno fino ai suoi primi cinquanta minuti.

Triangle of Sadness: un film della maturità che brilla ma si perde nell’autocitazione

Triangle of Sadness recensione cinematographe.t

La storia di Yaya, la bellissima influencer interpretata da Charlbi Dean, e Karl, il modello dalla brillante carriera e dal volto “di gomma” portato sullo schermo da Harris Dickinson, è ad un momento molto delicato a cui giungono la gran parte delle giovani coppie. Un momeno in cui c’è da sempre decisioni importanti per il futuro, in cui è necessario parlare di soldi e comprendere cosa si può fare per cercare una stabilità. Nel mondo della moda, che ruota strettamente attorno a quello dei soldi e dell’élite ineffabile e imprendibile di una superumanità, diventa tutto un gioco di scatole cinesi ascrivibili all’iperuranio inoccabile di chi ha più soldi di quanti potrà mai spenderne.

La nave da crociera su cui naviga la coppia di modelli è solo una metafora per mettere insieme sul palcoscenico quanta più umanità possibile: una tipologia umana che di umanità, per il borghese medio e piccolo, non possiede assolutamente nulla. Gli ospiti della nave (ricconi di vario genere) non sono propriamente mostri felliniani o surreali demoni bunueliani, sono creature ritrovabili nella quotidianità della sovraesposizione mediatica e nei poteri che si muovono dietro di essa. Una tempesta costringe i pomposi ospiti della crociera a star male, a rinunciare alla propria realtà instagrammabile per riversare sullo spettatore (e sullo staff di bordo) i propri reali contenuti corporei (una metafora lampante, ma riuscita nonostante il riferimento palese): cacca, vomito, pipì.

La social talk sulla parità di genere e sulle opzioni green delle lobby fagocitasoldi si riduce dunque ad un riversarsi di umanità nella sua becera realtà. I contenuti sono esposti e sono tutti uguali: una filosofia che trova la sua personificazione nel comandante alcolizzato e marxista interpretato da Woody Harrelson. Il film, nei suoi primi cinquanta minuti, è la sintesi di un secolo e gioca con lo stile di film italiani come Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto di Lina Wertmuller, uscito nei cinema nello stesso anno di nascita di Östlund, il 1974. Cosa succede dopo? Le pellicola si srotola, perde il filo, si autocita crogiolandosi nell’autoreferenzialità.

Una grande prova d’attore per Woody Harrelson, la stella di Charlbi Dean spenta troppo presto

Triangle of Sadness recensione cinematographe.t

Mentre Triangle of Sadness si dirige verso la sua parte centrale e l’ineluttabile fine, il citazionismo del grande cinema degli anni ’70 e la metafora del grande Novecento come una nave alla deriva involvono in una autocitazione senza scopo comunicativo. Le similitudini, le allusioni, i riferimenti e la comicità iniziano a stringersi sempre di più attorno al chiuso mondo della lotta di classe inscenata dal regista. La sceneggiatura – a cura dello stesso film maker – non aiuta la storia a respirare, chiudendola in spirali di dialogo ripetitivo e autoconclusivo.

Il film, se nei suoi primi 50 minuti esemplifica l’oligarchia umana intera nelle sue declinazioni di disgraziata esistenza (una miserabilità dalla quale nemmeno i poveri tuttavia si salvano, nonostante l’ammutinamento dell’equipaggio ad alto tasso simbolico, guidato da un personaggio inaspettato), si sfilaccia fino a diventare una parodia di se stesso nella restante ora e mezza. Östlund ha voluto strafare? Ha perso il controllo della sua pellicola come il capitano della sua nave in balia della burrasca? La deriva è intenzionale? L’opera fallisce nel proporre una risposta affermativa a ciascuno di questi quesiti. L’attenzione, inevitabilmente, cala: restano brillanti, invece, fino all’ultimo minuto le performance luminose ed imprevedibili di Charlbi Dean e Woody Harrelson. E se su Harrelson i dubbi non erano mai stati sollevati, la Dean nella sua unica epica performance scolpisce su pietra il merito di essere compianta come una vera diva del cinema d’autore.

Regia - 4
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3
Recitazione - 4
Sonoro - 3
Emozione - 3

3.3