The Last Days of American Crime: recensione del film Netflix

Cinetica fine a se stessa, pochezza strutturale e drammaturgia ridotta ai minimi storici, per un action-thriller targato Netflix che spara miseramente a salve. Tanto rumore per nulla...

Davvero un tempismo perfetto direbbe qualcuno – noi compresi – dopo la visione di The Last Days of American Crime, con le strade statunitensi invase e messe a ferro e fuoco dopo il brutale omicidio di George Floyd per mano di un agente di polizia. L’ennesimo ai danni di un cittadino afroamericano che va ad aggiungersi a una lista di casi che non ha nessuna intenzione di arrestare la sua crescita. Vi starete chiedendo quale possa essere il collegamento tra la situazione attuale in cui riversa l’America e la nuova produzione Netflix rilasciata lo scorso 5 giugno. A dire il vero nessuno, ma avrebbe potuto esserci se solo il film in questione, adattamento cinematografico dell’omonima graphic novel di Rick Remender e Greg Tocchini del 2009, fosse stato, così come la matrice che l’ha generato, animato da qualche spunto di riflessione o analisi di natura socio-politica.

The Last Days of American Crime: un’occasione persa figlia legittima di un anonimato contenutistico

The Last Days of American Crime cinematographe.it

Letta la sinossi, che teletrasporta il fruitore in un futuro vicino, il 2025, ma già distopico, in cui il governo degli Stati Uniti ha trovato un metodo infallibile per contrastare la criminalità grazie a un segnale radio che agisce a livello fisiologico, bloccando sul nascere l’intenzionalità di commettere un reato, ci si saremmo aspettati una materia narrativa e drammaturgica decisamente più sostanziosa. Le premesse nel plot c’erano tutte, ma purtroppo quella di fronte alla quale ci siamo trovati è l’ennesima occasione persa figlia legittima di un anonimato contenutistico che va di pari passo con quello formale. Non si tratta di avere la palla di vetro, ci mancherebbe, ma svuotare completamente un interessante e potenzialmente forte spunto di partenza come questo di qualsivoglia argomentazione a favore del nulla più totale, provoca in chi guarda una reazione di rigetto nei confronti del mittente.  

Un action-thriller tutto fumo e niente arrosto

The Last Days of American Crime, cinematographe.it

Al netto della superficialità e dell’inconsistenza dimostrate, che lasciano cadere un velo pietoso sullo script, The Last Days of American Crime si va a inscrivere di diritto e per demeriti dimostrati sullo schermo nel filone degli action tutto fumo e niente arrosto, lo stesso dove non meno di qualche mese fa si era andato a collocare un altro film griffato Netflix, ossia 6 Underground di Michael Bay. Riprova che i responsabili della piattaforma a stelle e strisce non hanno ancora preso bene la mira, andando nuovamente lontano dal bersaglio grosso. Se poi il tiratore incaricato di colpirlo risponde al nome di Olivier Megaton, allora le percentuali di riuscita si riducono ulteriormente. Non sono in discussione le sue capacità tecniche dietro la macchina da presa, ma in moltissime occasioni il cineasta francese, cresciuto alla corte di Luc Besson, si è misurato con progetti  ipertrofici come i due sequel di Taken, Colombiana o peggio ancora Transporter 3, con esiti piuttosto altalenanti.

Una catena di azione-reazione che trasforma la violenza in una videoludica forma d’intrattenimento

The Last Days of American Crime cinematographe.it

Qui non si smentisce, mettendo la sua firma su una maionese impazzita di detonazioni, proiettili e asfalto consumato, alla quale corrisponde una meccanica catena di azione-reazione che trasforma la violenza nelle sue diverse espressioni in una videoludica forma d’intrattenimento a buon mercato. E per di più tutto questo tiro al bersaglio è stato spalmato su due ore e trenta di timeline che somiglia a un tracciato piatto di un elettrocardiogramma, dove gli unici segnali di vita sono i battiti che arrivano da una manciata di sequenze d’azione che risuonano come falsi allarme di una possibile ripresa. Se poi ci si mette anche un impianto dialogico barcollante e una performance corale di scarsa qualità, frutto di cliché e della caratterizzazione di personaggi monodimensionali, dove Édgar Ramírez nei panni di un criminale è completamente monocorde e Michael Pitt in quelli del figlio cocainomane di un gangster appare completamente fuori controllo, allora la frittata è fatta e pronta da servire.   

Ciò che resta è una cinetica fine a se stessa, che trascina nel baratro anche l’esile linea mistery che scorre nelle vene del plot. Di conseguenza, pure quei pochi tentativi di depistaggio cadono miseramente nel vuoto a causa dell’incapacità della scrittura e della debolezza strutturale di alimentare a sufficienza la componente thriller del progetto. Un progetto, questo, nel quale si prova di tutto e di più pur di trovare qualcosa che riesca a stimolare la visione, ma ogni tentativo, compreso quello di chiamare in causa tanto revenge movie quanto il robbery and heist movie, finisce diritto nella pattumiera della cinematografia di genere.

Regia - 2
Sceneggiatura - 1
Fotografia - 2.5
Recitazione - 0.5
Sonoro - 2
Emozione - 0.5

1.4

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