Venezia 77 – The Human Voice (La voce umana): recensione del corto di Pedro Almodóvar

Recensione di The Human Voice (La voce umana), il cortometraggio di Pedro Almodóvar con Tilda Swinton, presentato al Festival di Venezia.

Rabbia, disperazione, senso di abbandono, dolore, incredulità. Questi i sentimenti dominanti in The Human voice (La voce umana), corto diretto dal maestro Pedro Almodóvar, che si appoggia completamente sulle spalle di una Tilda Swinton algida, intensa ed insieme fredda come poche altre volte.

La separazione, la fine di una relazione, è sempre un momento davvero difficile, soprattutto per chi lo subisce, costretto ad affrontare il senso di impotenza, di perdita, che arriva sempre connesso a sensi di colpa, al sentirsi persi, traditi.
Questo corto, a metà tra la sperimentazione ed il gioco di prestigio da parte del maestro spagnolo, è sicuramente un interessante esperimento, un gioco di sensibilità che cerca di valorizzare in ogni modo l’omonima pièce teatrale del grande Jean Cocteau.
Non è completamente teatro ciò a cui assistiamo, ma non è neppure completamente cinema, ed è (sì, può sembrare assurdo) pure un incrocio tra i due davvero difficile da collocare in termini di percentuali o predominanza.

The Human Voice è un’opera meticcia

Tuttavia non si può certo dire che lasci indifferenti, a dispetto di un inizio che può spaesare, di una sensazione di inafferrabilità, un suo essere un meticcio artistico che si palesa in ogni inquadratura, nella stupenda ed assieme enigmatica scenografia scelta da Antxón Gómez, così come nei bellissimi abiti di Sonia Grande. L’esistenza di una donna, alle prese con un dolore insormontabile, totalmente spaesata di fronte alla ineluttabilità di una separazione da lui, dall’amante, da quattro anni di vita condivisi, che se ne vanno in fumo assieme alle certezze costruite.

Opera che si erge sulla contrapposizione tra dentro e fuori, tra colori freddi e caldi, tra apparenza e realtà, diverte, commuove e soprattutto genera un’enorme empatia verso una protagonista, a cui la Swinton dona un’enorme fragilità ed assieme una enorme capacità di combattere per se stessa. Di certo, The Human Voice è un’intelligente e sensibile rappresentazione della morte e della rinascita che per l’anima rappresenta un addio.

Un iter tra rimpianti e futuro

Le differenti fasi del distacco sentimentale sono tutte perfettamente rese dalla sceneggiatura di The Human Voice: la disperazione, l’angoscia, il dolore quasi fisico di una perdita. Poi la rabbia, la non accettazione, a cui segue il tentativo di recupero, il condividere ricordi, immagini, suoni, momenti con quell’amato che la regia non ci mostra mai, che vive solo delle reazioni della protagonista. Una protagonista che finge, dissimula, recita, poi confessa, implora, pretende… fino alla conclusione, al fuoco purificatore che non può cancellare il passato ma può permettere di far tabula rasa e poi di far rinascere qualcos’altro.

Assieme a lei un cane, il cane di “lui”, diventato poi cane di “lei”, anch’egli abbandonato e pieno di dolore, ma infine pronto a ricominciare al fianco di quella strana, imprevedibile creatura che la sorte gli ha posto affianco. Il che lo rende perfetta metafora di ciò che è la vita, l’eterna ricerca del compagno, che non va ricercato ma accolto. Ma questa, anche per Cocteau, è un’altra storia.

[bade-votazioni]

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3.5
Recitazione - 3.5
Sonoro - 2.5
Emozione - 3.5

3.3