RomaFF14 – One More Jump: recensione del documentario di Emanuele Gerosa

Abdallah e Jehad sognano la fuga verso l'Europa grazie al parkour, sport e filosofia di vita che li spinge a immaginare un'esistenza lontana dalla Striscia di Gaza. Ma come si può diventare uomini liberi, se il prezzo è perdere tutto ciò che si ama? Ecco la nostra recensione del documentario One More Jump.

Chissà se il regista Emanuele Gerosa, per il suo documentario sul parkour e sui sogni di libertà di due ragazzi provenienti da Gaza, aveva immaginato un epilogo diverso. Perché One More Jump – presentato alla Festa del Cinema di Roma 2019 – è una presa diretta che sembra sempre in itinere, in viaggio e in contino mutamento, dall’imprevedibile risoluzione. Dal folle desiderio all’irredimibile tragedia, riassunta in una didascalia finale che lascia molto più dell’amaro in bocca. Abdallah e Jehad rappresentano le due facce di una medesima medaglia: da un lato c’è chi è riuscito a fuggire, ritrovandosi tuttavia in Italia da straniero in terra straniera; dall’altro c’è chi è ancora prigioniero della Striscia, con in mente il miraggio della libertà.

Lo spunto iniziale è lo sport, che diventa mai come in questa occasione metafora e simbolo: si parla del Gaza Parkour & Free Running Team, di una attività che è anche una filosofia di vita metropolitana. Bisogna seguire un percorso, superando qualsiasi genere di ostacolo con la maggior efficienza possibile attraverso salti, corsa ed equilibrismi vari. Oltrepassare sempre e comunque le barriere precostituite, in un Paese totalmente chiuso in se stesso e sotto la minaccia perenne dei bombardamenti, diventa quindi una missione e persino una provocazione, nei confronti della prigione a cielo aperto in cui si è costretti a vivere.

One More Jump: una strada che va dritta come una freccia

One More Jump cinematographe.itA stupire, anzitutto, è la vicinanza della cinepresa con i protagonisti e con l’ambientazione: siamo a Khan Yunis – città palestinese con adiacente campo profughi – con Jehad e i suoi amici, corriamo tra le rovine, assistiamo il padre malato a cui mancano i medicinali per la normale cura e assistenza. Ma siamo anche a Firenze, dove Abdallah si allena da solo nella zona della stazione sognando il grande campionato svedese che potrebbe finalmente renderlo professionista. La speranza si mescola alla paura, il gioco si riflette nei fondamenti di un’arte che va presa in modo molto serio. Nel parkour non c’è competizione, ci vogliono attenzione e rispetto, sono necessarie la modestia e la fiducia.

Jehad, che insegna ai ragazzini e a tutti quelli che vogliono seguirlo, parla di “una strada che va dritta come una freccia”, come qualcosa di cui non dubitare mai e che (quasi disperatamente) è l’unico viatico per affrancarsi da un’esistenza di continue privazioni. Verso una vita che non si sa cosa sarà, ma che per definizione sarà per forza migliore. Anche se è questo il modello da seguire, Abdellah vive in Europa ai margini, isolato culturalmente da tutto e da tutti. Stranieri nel proprio Paese, fra i continui bombardamenti e nella precarietà più assoluta, e stranieri se si emigra in quanto sradicati dalla propria famiglia e da tutto ciò che si ama.

One More Jump: per costruire un futuro migliore

Non è un film politico, One More Jump, ma finisce inevitabilmente per assumerne i connotati. L’occupazione israeliana – qualunque sia il proprio pensiero a riguardo – fagocita tutto, permeando ogni singola inquadratura: le case crivellate di colpi, gli edifici semidistrutti, le insegne dei martiri di Hamas, il muro che circonda Gaza sono consuetudini a cui le persone non fanno quasi più caso. È la cultura dell’assedio, in cui l’assuefazione alla guerra e la resistenza diventano passepartout per la sopravvivenza. L’unico modo di combattere la disperazione e la frustrazione è costringersi all’indifferenza, mescolandola surrealmente con una sorta di disillusa autoironia.

Mantenendo lodevolmente la giusta distanza, Gerosa in cabina di regia alterna la lotta per un futuro migliore e differente dei due protagonisti (Jehad a Gaza, Abdellah alla periferia di Firenze), come in una visione speculare. Due destini intrecciati nonostante la distanza, due microcosmi che si snodano in parallelo. Due salti nel vuoto (e nel buio, e nell’ignoto) strazianti e vertiginosi compiuti per assaporare la libertà, a qualunque prezzo. E indipendentemente dal risultato finale, che avremmo voluto e sperato diverso.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3.5
Sonoro - 4
Emozione - 4

3.6