Quel che resta del giorno: recensione del film

La recensione di Quel che resta del giorno. Intenso dramma a sfondo storico, tratto dal romanzo del premio Nobel Kazuo Ishiguro, diretto da James Ivory e interpretato magistralmente da Anthony Hopkins.

Ciò che rende interessante Quel che resta del giorno è, per certi versi, la sua incatalogabilità. Definirlo un semplice dramma sarebbe, oltre modo, riduttivo. Così come sentimentale o storico. Il film affronta la contaminazione tra i vari generi con uno sguardo esterno e trasversale che, poi, è quello del protagonista interpretato da Anthony Hopkins. Uscito nel 1993 e tratto da un romanzo del premio Nobel Kazuo Ishiguro, ha ottenuto il plauso della critica e un discreto successo di pubblico, guadagnandosi otto nomination agli Oscar nelle categorie principali (quell’anno a trionfare sarà il celeberrimo Schindler’s List, altro dramma a sfondo storico ma meno intimista).

Prodotto da Mike Nichols (Il laureato, Chi ha paura di Virginia Woolf?) e diretto da James Ivory che, con la sua compagnia Merchant Ivory Production, aveva già trasposto brillantemente altre opere letterarie tra cui ricordiamo Maurice; Camera con vista Casa Howard sempre con la coppia Anthony Hopkins/Emma Thompson). Tra gli interpreti troviamo James Fox (consumato attore inglese, suo il Fielding di Passaggio in India); Christopher Reeve (indimenticato Superman di Richard Donner); Peter Vaughan (il Mr. Helpmann del distopico e fantastico Brazil); Lena Headey (300 e, naturalmente, Il trono di spade) e Hugh Grant ( pre Quattro matrimoni e un funerale, che uscirà di lì a poco).

        Quel che resta del giorno – Il dramma interiore                                     di Anthony Hopkins

La storia, che comincia alle porte del secondo conflitto mondiale, ha per protagonista Mr. Stevens, maggiordomo alle dipendenze di Lord Darlington (Fox). L’uomo cura la sontuosa magione di Darlington Hall, supervisionando ogni minimo particolare in modo da renderla presentabile e accogliente agli occhi delle innumerevoli personalità che vi sosteranno. La totale dedizione nei confronti dell’incarico e del padrone è tale da annullare, in lui, qualsiasi tipo di personalità e sentimento: non riuscirà ad essere obiettivo per quel che riguarda le discutibili simpatie politiche di Lord Darlington (che verrà tacciato di collaborazionismo) né sarà in grado di curare i rapporti interpersonali con il padre, ormai anziano (Vaughan), e con Miss Kenton, governante decisa e vitale che proverà dei sentimenti sinceri per l’uomo.

La fine della guerra, la morte del vecchio padrone e l’avvento del nuovo (l’americano Christopher Reeve) lo spingeranno a riconsiderare la sua intera esistenza. Il film parla, dunque, di un dramma interiore, quello vissuto dal personaggio di Anthony Hopkins e viene rappresentato magistralmente.

Ci troviamo di fronte ad uno dei rari casi in cui regia, sceneggiatura e recitazione sono in simbiosi perfetta fra loro: la regia di James Ivory si rivela contenuta, asciutta ma molto attenta al dettaglio, sia scenico che recitativo (e per questo motivo, il film andrebbe visionato più di una volta). Ottima l’alternanza tra le situazioni pubbliche (i ricevimenti di Lord Darlington) e quelle che avvengono “dietro le quinte” (le dinamiche della servitù). Questi due binari, ben distinti, si uniranno in un’unica sequenza, quella in cui il personaggio di Hugh Grant a colloquio con Mr. Stevens esclama: “Siamo stati ingannati!” riferendosi agli eventi storico-politici e, inconsapevolmente, alla situazione affettiva appena vissuta dal maggiordomo.

La pellicola è, inoltre, pervasa da simbolismi e metafore che rimandano alla psicologia dei personaggi (la scelta di ambientare gran parte della storia in interni, una colonna sonora, talvolta, straniante, la scena della preziosa bottiglia di vino infranta, la maniacale attenzione per gli oggetti del protagonista e la sequenza finale). Senza tralasciare il concetto allegorico del crollo della civiltà anglocentrica in favore di quella americana (l’alternarsi dei padroni Fox e Reeve).

  Quel che resta del giorno – Una piccola grande storia     

La sceneggiatura di Ruth Prawer Jhabvala è eccellente, poiché gioca anche essa con dialoghi mai espliciti che rimandano, quasi, ad altro: il rapporto tra Mr. Stevens e Miss kenton si sviluppa attraverso dialoghi di tipo prettamente lavorativo, ciononostante, si percepisce perfettamente l’affinità tra i due. Il modo peculiare con il quale il maggiordomo si rivolge al padre, esprime in maniera eccellente la mancanza di affettività (esemplare l’epilogo di questa situazione genitore/figlio). “Io non ho sentito nulla” è la frase utilizzata dal protagonista come risposta ogni qualvolta si trova davanti ad una scelta o ad un’opinione da esprimere; una battuta che lo accompagna per tutta la storia, rivelandosi rappresentativa del personaggio.

La sublime recitazione che, come accennato prima, presenta lo stesso approccio di regia e sceneggiatura, non risulta mai essere sopra le righe ma contenuta e dal forte impatto emotivo, in particolare Anthony Hopkins  (l’anno precedente, aveva interpretato il noto e diametralmente opposto Hannibal Lecter).

L’interpretazione di un attore può dirsi riuscita quando, a film concluso, si ha l’impressione di avere davvero conosciuto il personaggio e questo è il caso. Difficile immaginare un altro attore nei panni dell’impettito maggiordomo. Da manuale di recitazione la reazione impietrita alle domande che la governante gli pone riguardo un libro e la sequenza del viaggio catartico in cui il protagonista appare, quanto mai, spaesato e alienato. Il resto del cast si rivela all’altezza (Thomson in primis) e anche la minore attenzione dedicata alle psicologie dei caratteri di supporto si rivela una scelta oculata, in quanto essi sono tenuti a debita distanza dal protagonista. Un grande film.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3.5
Recitazione - 4
Sonoro - 3
Emozione - 4

3.6