Playground – Il patto del silenzio – Recensione del film di Laura Wandel

La recensione di Playground - Il patto del silenzio, esordio al lungomentraggio della regista belga Laura Wendel sul tema del bullismo.

“Non dire niente a nessuno. Restane fuori e non farti coinvolgere, ormai è troppo tardi”. Così dice sofferente, traumatizzato, eppure lucidissimo il piccolo Abel (interpretato da un grandioso Günter Duret, per la prima volta sullo schermo) alla sorellina Nora (interpretata da una Maya Vanderbeque incredibilmente emotiva, feroce e indimenticabile) in un primo momento di Playground – il patto del silenzio, durante il quale egli si ritrova vittima di bullismo – senza peraltro aver commesso alcuna azione, e senza nemmeno essersi fatto notare da quei giovani elementi riconosciuti come violenti e maleducati tra le mura scolastiche – e in un altro invece secondario, durante il quale le dinamiche si ribaltano e Abel veste i panni del bullo che senza motivazione alcuna procura dolore ad un altro bambino, senza smettere mai.

Playground – Il patto del silenzio, traduzione italiana estrapolata da uno dei molti significati intratestuali di Un Monde, titolo invece originale dell’opera seconda della regista belga Laura Wandel, dopo il corto Les corps étrangers (2014), coincide proprio con queste parole dolorose, eppure lucidissime che fratello e sorella si scambiano silenziosamente nella complicità di una presa di coscienza immediata rispetto ad una situazione di violenza inutile e al tempo stesso inevitabile, feroce e cieca che vige come regola non scritta tra le mura scolastiche frequentate da entrambi, prima in un momento di sottomissione e di passività, dunque da vittima, fino alla mutazione, perciò al ribaltamento crudele ma non per questo inaspettato dei ruoli, e cioè da carnefice.

Laura Wandel riflettendo sul bullismo rende chiaro quanto il suo generare vittime coincida con il generare altro bullismo, se possibile ancor più feroce, spietato e duro, rispetto a ciò che si è subito. Se infatti Abel viene mostrato con inaspettata crudezza e realismo nei momenti in cui è vittima, coinvolgendo emotivamente lo spettatore rispetto a sofferenze e dinamiche del silenzio, in cui nulla può essere comunicato, ma tutto può essere osservato, per il resto del film viene invece pressoché ignorato o comunque relegato ai margini, ponendo la violenza e la questione della vittima come sotto testo e poi nel fuoricampo.

Un monde - Cinematographe.it

Ciò che segue è un ampio segmento o arco temporale dedicato alle conseguenze psicologiche degli accadimenti violenti subiti da Abel, rispetto alla fanciullezza ormai turbata della sorellina Nora, che facendosi osservatrice passiva di tali drammi e mutamenti emotivi, non può far altro che mutare anch’essa, perdendo precocemente tra turbamenti e violenze la propria innocenza. Un arco temporale quello di Nora che dialogando con l’introspezione, il peso dei sensi di colpa, il discorso voyeuristico e la rabbia inespressa, cede presto spazio all’ennesima crudezza e al ritorno totale e feroce sullo schermo della violenza che vede ancora una volta protagonista il fratello maggiore Abel, turbato e mutato a tal punto da ciò che ha subito, da divenire carnefice e portatore attivo di quella stessa violenza, anche se questa volta decisamente più adulta, spaventosa e senza ritorno.

Il cammino scolastico che Nora e Abel intraprendono, subendolo continuamente, senza ricevere alcun aiuto concreto, non è affatto di educazione e insegnamento, bensì di dolorosa sopravvivenza, omertà e inspiegabile ma inevitabile crudeltà. Un cammino che conduce immediatamente i due bambini ad una precoce e turbata perdita dell’innocenza. Un vero e proprio viaggio emotivo che non ha ritorno alcuno, se non una destinazione esplicitamente annunciata a partire dai primissimi minuti, quella dell’irrimediabile trasformazione e del trauma.

Sulla regia di Playground – Laura Wandel tra cinema documentaristico e sperimentale

L’opera seconda di Laura Wandel tutto appare fuorché un’opera cinematografica verrebbe da dire convenzionale e standard, perseguendo un’idea di cinema legata evidentemente alla formula documentaristica in primo luogo e poi allo sperimentalismo più ispirato, seppur riuscito solo in parte, rispetto a questioni di forma e discorso linguistico secondario. Basti pensare a quei tre minuti di buio e silenzio che si frappongono tra un’inquadratura ed un’altra, durante i quali lo spettatore non può far altro che domandarsi se il film abbia subito uno stop, se quel buio sia voluto, oppure se ci sia un errore di riproduzione.

La Wandel comunque restando fedele fin dal suo primo lungometraggio ad un approccio diretto e morboso tra regista e corpi filmati, non produce mai distanze ampie e ben visibili, tutto sommato convenzionali all’interno di un discorso cinematografico generale guardando al panorama attuale e non, scegliendo piuttosto di restare sui corpi e volti senza dar loro alcun respiro.

Playground è infatti un film fortemente claustrofobico che vorrebbe fare del suo sguardo morboso e spietatamente crudo, seppur quasi soltanto a livello psicologico, così come della sua sottrazione e privazione rispetto alle convenzioni semiologiche e linguistico-cinematografiche, un punto di forza il cui massimo ideale appare il guardare tanto al cinema di Haneke, quanto a quello di Lars Von Trier, senza cogliere tuttavia né il minimalismo cinico e la maniacalità registica del primo, né il gusto estremo e atipico del secondo, perdendosi senza più ritrovarsi tra scolastiche velleità registiche e tentate strizzate d’occhio nient’affatto riuscite o correttamente motivate.

Un monde - Cinematographe.it
Nora è la protagonista di Un monde.

Laddove le questioni narrative sembrano cedere il passo a volontà documentaristiche, Playground perde gran parte del suo interesse e della sua forza registica, tentando in ogni modo di porre lo spettatore di fronte ad un’opera di denuncia sociale cinematografica che vorrebbe essere tale soltanto a metà, rassegnandosi definitivamente al consolatorio o comunque ad una conclusione che nulla può comunicare se non una mancata risoluzione o altrimenti una maldestra riflessione sul rapporto tra vittima e carnefice, interna a quella ben più ampia sul bullismo, la causa che genera e dà avvio alle dinamiche narrative – e non – del film.

Non sono perciò sufficienti due prove interpretative senza precedenti da parte di due fanciulli che sembrano venir fuori dall’universo cinematografico dei Fratelli Dardenne (Günter Duret e Maya Vanderbeque), quando concretamente tutto il resto viene a mancare, a partire da una scrittura scialba, superficiale e inconcludente, fino ad una regia che nella sua rincorsa esasperata e inspiegabile di uno sperimentalismo così programmaticamente pretenzioso e didascalico non fa altro che affondare anche la benché minima idea riuscita e senz’altro sporadica.

Un vero peccato, d’altronde il cinema sull’infanzia, è stato capace negli anni di mettere a dura prova anche i più grandi e autorevoli registi.

Playground è stato presentato in anteprima al Festival di Cannes 2021 nella sezione Un Certain Regard, ricevendo dieci candidature ai premi Magritte 2022, tra cui miglior film e miglior regia, finendo come ufficiale proposta belga per l’Oscar al miglior film straniero del 2022, venendo in definitiva escluso dalla cinquina selezionata dall’Accademy. Verrebbe da domandarsene il perché, ma una volta giunti ai titoli di coda la risposta non tarderà ad arrivare.

In uscita nelle sale cinematografiche italiane a partire dal 2 marzo 2023, distribuzione a cura di Wanted Cinema.

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 2.5
Recitazione - 4
Sonoro - 2.5
Emozione - 2.5

2.8