Photocopier: recensione del film Netflix di Wregas Bhanuteja

Applaudito con 17 nomination all’ultimo l'Indonesian Film Festival, l’esordio al lungometraggio del regista Wregas Bhanuteja trova un modo inedito per svelare le verità sulle molestie e sugli abusi subiti (e silenziati) ogni giorno nel suo Paese.

Se si prova a spostare lo sguardo oltre il Nord America e gran parte della nostra Europa, la risonanza del movimento #MeToo sul cinema arriva, seppur in forme e narrazioni spesso differenti, anche in Paesi non così scontati. In Indonesia ad esempio, il film Photocopier (dal 13 gennaio su Netflix) diretto dall’esordiente Wregas Bhanuteja e apprezzato tanto da dominare con 17 nomination l’Indonesian Film Festival di quest’anno tra cui Miglior film, Miglior regista, Miglior sceneggiatura originale, Miglior attore e Miglior attrice, tratta il discorso sulla violenza di genere e sull’abuso di potere attraverso i connotati di un dramma/thriller buio e smisuratamente tecnologico, costruito sulla ricomposizione di una notte sbadata fra alcool e divertimento costata estremamente cara ad una studentessa di Giacarta.

Photocopier: pericoli dello smartphone e acquisizione di dati personali nel film indonesiano su Netflix

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Costretta dal severo padre a non assumere alcolici e vestirsi in maniera ‘appropriata’ come la cultura indonesiana prevede, la web designer Sur (Shenina Cinnamon) la mattina dopo i festeggiamenti condivisi con la compagnia di teatro universitario con la quale collabora da tempo si tramuta in un incubo: nelle mani dei professori sono giunti dei selfie che la ritrarrebbero estremamente ubriaca e dedita alla baldoria, comportamento inaccettabile al regolamento accademico tanto da escluderla dalla consegna della borsa di studio.

Espulsa dal concorso e mandata via di casa, Sur trova riparo dall’amico Amin (Chicco Kurniawan), gestore di un cento per le fotocopie e al contempo internet point, dove ogni giorno studenti del campus si collegano per spostare e inviare file, stampare tesi e fotografie. Stordita e incredula, la giovane si trova così a ricostruire i fatti di quella notte, ripercorrendo i passaggi e la verità sul suo momentaneo black out hackerando i computer e i dati dei membri della compagnia che erano presenti alla festa.

Oscurare la verità e il fenomeno virulento del victim blaming

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Lugubre, asfissiante e ambientato in spazi angusti tra camere fatiscenti e garage nascosti, a contribuire alla cappa di impenetrabilità e offuscamento che permea l’intera scelta fotografica di Photocopier, arrivano improvvisi dei fumi densi e bianchi emessi da camion per la disinfestazione dell’epidemia del dengue, un virus trasmesso tramite una zanzara diffuso tutt’oggi anche in Indonesia. Quell’epidemia però, nel film, che segna il primo vero lungometraggio di Bhanuteja, assume tuttavia significati morali da quelli meramente virulenti: quel richiamo a “drenare, coprire e seppellire” urlato dalle autorità sembra essere invece quello sugli abusi e le violenze subite da studentesse e studenti del paese, denunciati con coraggio e respinti da una coltre di victim blaming e figure patriarcali come professori e genitori i quali colpevolizzano obbligandoli a tacere.

Hacker, teatro e storie da diffondere: Photocopier espone con personalità e idee non convenzionali il tema delle vittime di molestie sessuali

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Strutturato come fosse un thriller sull’hackeraggio ma convogliato poi su un finale dal forte impatto emozionale e dal messaggio inequivocabile, il film scritto da Wregas Bhanuteja e Henricus Pria sensibilizza sul tema delle vittime di molestie sessuali silenziate dal sistema giuridico e culturale senza farne del sensazionalismo, ma rimanendo per gran parte del tempo nell’ambiente studentesco e freddamente materiale, ancorato all’acquisizione schematica di dati e foto attraverso dispositivi digitali quali smartphone, computer, chiavette usb, hard disk. Il lento svelamento della verità e la difficoltà a toccarla perché celata da una catena di omertà e oscurantismo rende il film atipico per come maneggia con lucidità una materia facilmente riducibile alla sola ricerca dell’emotività e dello sdegno.

Il centrale processo di copiatura, infatti, soddisfa non solo una ricerca cromatica con il verde del neon degli stessi macchinari ritrovato costantemente in ogni frame fra oggetti e ambientazioni, ma assolve il significato di moltiplicare e diffondere le tante verità seppellite per farle arrivare a quanti più possibili. E lo fa in un’operazione stratificata in cui anche il processo creativo del teatro e i perigli dell’ideazione scenica avranno un ruolo inaspettatamente importante. Photocopier è dunque un film vasto e per nulla banale, che riesce a imporsi (o almeno lo meriterebbe) in un discorso sulla correlazione fra violenza e tecnologie utile a capire questo preciso momento storico, in cui nessun paese ne rimane fuori.

Regia - 3
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3.5
Recitazione - 3
Sonoro - 3
Emozione - 3

3.2

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