Phobia: recensione del film di Antonio Abbate

La pellicola prodotta da Undicidue3 viene distribuita nelle sale italiane dal 5 ottobre

Un esordio alla regia consapevole e strutturato, un’amalgama fuorviante tra la realtà e la fantasia, che si colora di giallo ed assume le sembianza di una pellicola dall’ampio respiro, una pellicola che, nonostante il modesto budget, si appropria di un taglio internazionale; Phobia è l’opera prima del regista classe 1997, Antonio Abbate, mestierante corazzato da illustri collaborazioni fuoriporta (ha supportato la regia di Michael Mann in Ferrari) che, dopo aver scritto e diretto il corto Sottosuolo, si cimenta con il suo primo lungometraggio scritto a quattro mani da Giacomo Ferraiuolo e Michele Stefanile e prodotto da Undicidue3. Il film, che comincerà il suo percorso distributivo il 5 ottobre, vede Jenny de Nucci (Ancora più bello, Ragazzaccio) nel ruolo della protagonista Chiara, accompagnata da Antonio Catania (Così é la vita), Federica de Benedittis (I racconti della domenica), Francesca Romana de Martini (Il Colibrì), Beatrice Schiaffino (Il ritorno) e Eugenio Papalia (Chi m’ha visto).

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Phobia: il ritorno di un passato disfunzionale

Phobia cinematographe.it

Nella scena d’apertura del film Chiara, giovane dipendente presso un vivaio, viene convinta dall’amica Michela (Beatrice Schiaffino) a tornare al vecchio casale di famiglia, ove non mette piede da moltissimi anni; un incendio avvenuto quando lei era bambina, oltre a distruggere la stalla di famiglia, ha costretto a letto il padre (Antonio Catania), causando conseguentemente l’inasprimento dei rapporti tra la protagonista e suoi parenti più prossimi e portando alla decisione di lei di allontanarsi, nel tentativo di dimenticare il trauma passato. Ancora dilaniata dal senso di colpa e dagli strascichi traumatologici derivanti dall’incidente, la ragazza viene accolta, anni dopo, in maniera alquanto fredda sia dalla madre rancorosa (Francesca Romana de Martini) che dal fratello (Eugenio Papalia) reticente e burbero nei suoi confronti.

Ella, dopo una cena che contribuisce solamente ad inasprire antichi risentimenti, si sveglia nel pieno della notte, sorpresa dalla scomparsa di Michela e di tutte le sue cose; accorsa dai familiari in cerca di aiuto, la ragazza viene smentita del fatto di essersi presentata in compagnia di qualcuno, cadendo così nella disperazione e cedendo al lacerante dubbio di non riuscire più a distinguere la realtà dall’illusione, proprio come accaduto in passato. La protagonista, però, non cederà facilmente ai tentativi di convincimento da parte di Antonio (fratello) e Maria (madre), cercando sostengo nella cognata Sara (Federica de Benedittis), appena conosciuta.

La sospensione data da criptiche paure

Eugenio Papalia, Francesca Romana de Martini e Federica de Benedittis cinematographe.it

Le suggestioni del film partono tutte da quello scarto che viene a crearsi nel momento in cui l’illusione immaginativa tenta di prevaricare la fragile realtà della protagonista e la percezione logica dello spettatore; vengono a crearsi zone grigie, all’interno delle quali spaziare con libertà interpretativa, assicurata da un non detto e da non visto che veicolano l’ambiguità drammaturgica respirata dal primo all’ultimo fotogramma. La paura si accompagna a sentimenti di ostilità, nell’analisi introspettiva di un nucleo familiare e dei rapporti che ne concatenano le parti, con una lente di ingrandimento costante posta sui tormenti, sulle viscerali inquietudini e sui pentimenti di Chiara, smarrita a causa della mancanza di una stabilità psico-emotiva per ogni singolo componente della famiglia e a causa del minaccioso e destabilizzante ritorno di sensazioni e convinzioni passate.

Phobia: valutazione e conclusione

La mano di Antonio Abbate stupisce per la sicurezza con cui si muove e, oltre a palesare un’esperienza che non sembra coincidere con i suoi dati anagrafici, dimostra un’ottima conoscenza dei modelli e delle tecniche autoriali, proprie di un cinema di genere oggi scarsamente rappresentato in Italia. La sceneggiatura ricalca un filone già noto ma non cede mai alla banalizzazione, venendo poi rispettata dal regista, che riesce ad imprimerle il giusto ritmo, mantenendo una sostanziale autenticità, garantita sia dal lavoro sulla fotografia di Dario Germani (The Slaughter), sia da un suono leggermente abusato nelle prime sequenze, ma poi ricalibrato, sia dalle prove di interpreti perlopiù acerbi ma comunque calatisi nella parte col giusto temperamento: il lavoro su Chiara di Jenny de Nucci è volto alla restituzione di un disorientamento in grado di calamitare lo spettatore il quale, col tempo, viene catturato dall’atmosfera deviante della pellicola, chiedendosi quale sia la realtà dei fatti.

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Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3.5
Fotografia - 3.5
Recitazione - 3
Sonoro - 3.5
Emozione - 3.5

3.4