Venezia 73 – Orecchie: recensione del film di Alessandro Aronadio

Una spia fissa inaugura Orecchie, si incastra nella coscienza partendo dal condotto uditivo e introiettando lo spettatore in un mondo apparentemente ordinario, scandito da un uso artisticamente smodato del bianco e nero e un’inquadratura a 16:9 che ci fa comprendere già dal principio quanto per il protagonista sia necessario rimanere entro i margini.

Il film diretto dal giovane Alessandro Aronadio è un labirinto di suoni e pensieri in cui si rimane intrappolati inconsapevolmente.

Orecchie inizia come un’ordinaria giornata di un qualsiasi uomo sulla faccia della Terra, che si sveglia e trova un bigliettino con su scritto “È morto il tuo amico Luigi. P.S. Mi sono presa la macchina” e un fastidioso fischio alle orecchie. Non sa chi sia questo Luigi e in apparenza sembra che non sappia neanche dove si trovi o chi è la donna che gli ha scritto il bigliettino. Un senso di smarrimento tipico del post risveglio ci intorpidisce e fa da incipit alla visione, portandoci alla scoperta di una tragicomica realtà scandita da un effluvio di campi e controcampi, piani sequenza mai troppo prolissi, arte a perdita d’occhio e basilari considerazioni sulla vita, che si fa presto a tramutare in consigli.

Il fil rouge dell’intera opera è la religione cattolica. La domanda “Lei crede in Dio?” ricorre con metrica cadenza durante tutta la proiezione.

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Le prime ad esaminare l’animo del giovane e smarrito protagonista sono due suore, che citofonano alla sua porta importunandolo con domande sulla Bibbia. L’uscita della vicina rimasta vedova fa presto a trasformare un incontro occasionale in un breve party a casa del malcapitato, concluso in maniera pessima.

Sulla scia del fastidioso fischio alle orecchie veniamo strattonati in studi medici totalmente disorganizzati, con dottori truffaldini e burloni e personaggi che sembrano essere stati immortalati da Steve McCurry (ma nella versione in bianco e nero). Le inquadrature sono fotografiche, nitide, dettagliate e si lasciano sfogliare sullo schermo come se facessero parte di un album composto da scatti a volta slegati, altre volte meravigliosamente collegati.
Soggettive profonde su personaggi stereotipati e talvolta ‘monoespressivi’.

Avvalendosi di piani sequenza e panoramiche la macchina da presa di Alessandro Aronadio immortala luoghi ingessati, perfetti come cartoline e costantemente sommersi d’arte, perlopiù contemporanea. Sono foto appese alle pareti, gonfiabili, murales raffiguranti Madonne e rami intrecciati (si intravede anche una citazione a Keith Haring), locandine con burger e cheesburger, selfie, immagini riflesse sui vetri delle auto o copertine di giornali e ancora automobili piazzate dentro le abitazioni.

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Tra musica rap e citazioni, sempre accompagnati da un lieve e sopportabile brusio, affiorano adagio pezzi di vite devastate, infelici, insoddisfatte; uomini e donne deliranti di complessità o affascinati dalla semplicità. Persone eccessivamente sommerse dal pensiero, nelle quali il protagonista si configura, senza comunque cercare una risposta.

“È difficile da abbracciare, la semplicità”

La necessità di vivere con leggerezza viene gridata con delicatezza, si insinua negli angoli della bocca e viene ripetutamente soffocata dalla complessità. La gioia di vivere è, in Orecchie più che mai, un pensiero astratto. La morale, il senso della vita, i segnali del destino, vengono costantemente nascosti sotto il tappeto della routine. E la diversità, quella grande invenzione, pian piano si assopisce sotto i colpi dell’imitazione e sopraggiunge la noia di vivere, quella che toglie il sorriso e il respiro, quella dalla quale prendono spunto i rimorsi.

Come dice la moglie del suo ex professore Marinetti, interpretata da Milena Vukotic:

Cosa c’è di più bello che pensare cose stupide senza rendersene conto? Non è forse questo il privilegio della gioventù?

Stupidità quindi nella sua accezione positiva, come stimolo a godere dei piccoli regali che l’esistenza riserva a chi sa coglierli. Stupidità come gioventù interiore; come un’oasi in cui ristorare l’anima nel momento in cui ci si accorge che la ragione apre sì le gabbie della schiavitù intellettuale, ma spesso ci incatena ai tarli dell’incomprensione, risucchiandoci nel vortice dell’infelicità. Quanto sarebbe invece più bello, a volte, spegnere la luce della ragione e vivere di illusioni e apparenze? Quanto farebbe bene regalare un sorriso solo per il piacere di vederselo ricambiare?

In Orecchie la follia domina con poesia lo sfondo di una giornata qualunque, lo fa con nonchalance e un pizzico di teatralizzazione.

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Come la madre del protagonista (Pamela Villoresi), sorpresa dal figlio ad amoreggiare per strada col suo compagno (Ivan Franek), che sembra molto più sopra le righe di una ragazzina di quindi anni.
In questo frangente il personaggio di Ivan Franek, raccontando delle sue performance e della sua capacità di assemblare (mobili dell’IKEA senza il libretto d’istruzioni) esprime in brevi frangenti e con elementarità tutta la caducità dell’arte contemporanea.

Il colloquio con la direttrice di una nota rivista (Piera Degli Esposti) è l’apice della tragicommedia e di una carriera filosofica (il protagonista è laureato in filosofia) che tocca il fondo, intercalato dal fischio alle orecchie che si trasforma in un ticchettio legnoso e che sottolinea l’inizio di una comprensione meno aprioristica della vita.

E giunti finalmente alla fine della giornata, occorre andare al funerale di Luigi, di cui nessuno si ricorda l’esistenza. In una chiesa incellophannata domina la scena un sempre euforico e impeccabile Rocco Papaleo, prete sui generis che tra una Bibbia letta male e un bicchierino di vodka di troppo scioglie finalmente la matassa del pensiero, raccontando che il più grande rimorso del defunto era quello di non essere riuscito ad accettare il mondo.

Ad un tratto allora tutto sembra chiaro: Luigi si configura col protagonista. La sua vita ormai andata diviene per lui una tela di prova per non ripercorrere gli stessi sbagli e quel fischio alle orecchie, quel fastidioso rumore dei pensieri, diventa sopportabile e rispettabile.

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Presentato in anteprima mondiale alla 73a Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, nell’ambito di Biennale College, prodotto da Costanza Coldagelli per Matrioska, Orecchie gode di una recitazione impeccabile e di un cast che ha saputo calarsi minuziosamente nella parte, formato da Daniele Parisi, Silvia D’Amico, Pamela Villoresi, Ivan Franek, Rocco Papaleo, Piera Degli Esposti, Milena Vukotic, Andrea Purgatori, Massimo Wertmüller, Niccolò Senni, Francesca Antonelli, Sonia Gessner e Paolo Giovannucci.

In conclusione Orecchie è una commedia che sa farci smarrire e ritrovare, che sa farci accettare il mondo e indurci a piegare in alto gli angoli della bocca, perché c’è sempre un motivo per sorridere e quel fischio che sentiamo nel condotto uditivo… basta volerlo e si trasformerà in una dolce melodia.
Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4.5
Recitazione - 4.5
Sonoro - 2
Emozione - 4

3.8