Moonage Daydream: recensione del documentario su David Bowie

Il rumoroso documentario/esperienza di Brett Morgen dal titolo Moonage Daydream è un'esplosione di suoni, colori e parole per raccontare la vita e l'arte di David Bowie. Francamente imperdibile.

Moonage Daydream, per la regia di Brett Morgen, trasfigurazione cinematografica della vita di David Bowie, esce in Italia in esclusiva nelle sale IMAX dal 15 al 21 settembre 2022, poi al cinema più tradizionalmente dal 26 al 28. Distribuisce Universal Pictures Italia. La prima al Festival di Cannes del 2022, con esiti molto incoraggianti. Per i siti americani specializzati in faccende critiche, l’etichetta da incollare sul dorso del film”, traduzione italiana non richiesta, è quella di “universal acclaim”. Va detto che gli dona. Dura circa due ore e venti minuti ed è fantastico, qualunque cosa sia.

Moonage Daydream cinematographe.it

Non è un documentario. Guai a considerarlo tale, se troverete la parola riprodotta nel titolo della recensione o magari altrove, sarà più per necessità editoriali che per ferma convinzione. Moonage Daydream è un netto rifiuto delle forme narrative tradizionali, l’impeachment (!) delle convenzioni. È un’esperienza sensoriale, visiva, sonora, estetica e artistica che, nel collage di materiali, alcuni inediti, altri no, nella ricerca di un senso al di là della superficie pigra delle cose, imbriglia l’interiorità (emozionale) e l’esteriorità (artistica) di un’icona irraggiungibile. Come diceva lo slogan, David Bowie, sempre imitato, mai eguagliato? Più o meno, ed è facile capire perché.

Moonage Daydream: David Bowie, collezionista per vocazione

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Brett Morgen, dal canto suo, ha un bel feeling con la musica e i musicisti. Era suo, nel 2015, tanto per fare un esempio, il riuscito Cobain: Montage of Heck. Un’esplorazione potente dell’interiorità tormentata di uno degli ultimi, grandi e arrabbiati profeti del rock. Ma quello era, nei fatti, ancora un documentario. Che però cominciava a prendersi qualche libertà rispetto al canonico approccio al genere, perché a fianco delle talking heads (le testimonianze standard) e a un tempo del racconto tutto sommato lineare si accompagnavano interventi più di rottura, come delle interessanti parentesi esplicative affidate all’animazione. Sarebbe ingeneroso ridurre l’operazione Kurt Cobain a un’elaborata prova generale verso qualcosa di più allusivo, potente e articolato. Moonage Daydream è comunque un notevole passo avanti, un respiro di libertà, l’affrancamento dalle vecchie abitudini e la fuga verso qualcosa di nuovo ed eccitante.

In un momento di sincera autoanalisi, che arriva più o meno a metà del film, viene chiesto a David Bowie di definirsi e lui non si tira indietro e risponde: io sono un collezionista. È una definizione che colpisce per esattezza e senso della misura, a maggior ragione perché lo spettatore appena più informato intuisce che il Bowie che la partorisce è quello di metà anni ’70, di strada ce n’è ancora tanta da fare, ma almeno su questo aspetto ha già le idee chiare. La personalità e l’arte di David Bowie risultano da un inesausto processo di selezione, rielaborazione e sintesi di influenze, filosofie, suggestioni. Combinate, producono un’identità stratificata, in perenne movimento.

Ogni maschera, da Ziggy Stardust al Duca Bianco. Ogni inversione clamorosa del sound, dal glam dei (quasi) inizi alla svolta art rock/sperimentale del periodo berlinese, per passare poi al trionfo commerciale dei primi anni ‘80 con relativa perdita di purezza fino al faticoso (ma esaltante) percorso di ricostruzione di un’integrità artistica, testimonia del tentativo di David Bowie di venire a patti con la propria identità, interrogando e interrogandosi. Moonage Daydream è storia dell’uomo e dell’artista, armonia e conflitto in parti uguali. Frammentato per natura e per dovere di coerenza, il film si adatta al passo del suo eroe e si fa a sua volta collezionista. Brett Morgen ammucchia un numero impressionante di materiali di repertorio. C’è l’energia dei live, la devozione fondamentalista dei fan, scorci di vita privata, estratti da interviste, un archivio di gemme cinefile che intreccia classici indiscussi (Kubrick, Fellini, Lang e tanti altri) a capisaldi del genere (soprattutto sci-fi); nel mezzo, anche alcune delle più note incursioni cinematografiche del nostro, da L’uomo che cadde sulla terra a Furyo a Miriam si sveglia a mezzanotte.

Nella vita e nell’arte di David Bowie, ciò che conta è l’espressione

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Moonage Daydream è il delitto perfetto per chiunque ami l’arte e l’estroversa personalità di David Bowie. Una linea narrativa, molto esile ma comunque riconoscibile, contraddetta in continuazione dal ping pong tra passato e presente e dall’accostamento audace delle fonti. Tanto basta a replicare quel particolare mix di originalità dell’ispirazione e lucidità di calcolo che ha sempre guidato il percorso del protagonista. Un film su Bowie come avrebbe potuto pensarlo e girarlo Bowie, prova di coerenza tanto più sorprendente considerando che a monte c’è una visione complessa. Brett Morgen racconta l’uomo, l’artista, talvolta separandoli, molto spesso insieme. Non cerca una reale contrapposizione tra pubblico e privato perché sa che l’espressione artistica si nutre di entrambi e nel caso specifico, essere e apparire, realtà ed espressione sono davvero una cosa sola. Espressione è una parola chiave. Qui, forse, LA parola chiave.

Come la maggior parte degli uomini, David Bowie è curioso, ha fame di vita e sa aggredirla col piglio giusto, che è quello dell’esploratore. Non può fare a meno di guardarsi dentro e di ragionare sul risultato delle sue scoperte. Venire a patti con la propria identità significa rivedere i termini del proprio rapporto col mondo, parlando e pensando di cose importanti come amore, morte e creatività, perché non c’è solo la musica. Ciò che lo distingue dalla massa, oltre a un talento considerevolmente sopra la media, è una naturale disponibilità ad accogliere la vita che centrifuga in continuazione. L’identità di Bowie è la somma di un certo numero di maschere, di molti stili musicali, di una sessualità fluida. Un totale fatto di tante parti nessuna delle quali, a monte, vale più delle altre. Parlare di viaggio e di meta, a questi livelli, non ha molto senso, suggerisce Moonage Daydream. Sono la stessa cosa. La messa in scena che Bowie offre del suo corpo e della sua anima, sia essa un travestimento o un particolare accorgimento musicale, è il senso stesso della sua arte. Il mistero dell’identità non è chiuso in chissà che retrobottega della psiche e questo vale per ogni uomo. L’identità è l’espressione, il modo in cui decidiamo di svelarci.

Al di là di tutto, però, Moonage Daydream non si lascia distrarre dalla sua anti convenzionalità e non scorda di raccontare quello che abbiamo bisogno di sapere sulla vita di Bowie. C’è l’infanzia cullata da sogni di gloria, tra genitori freddi e il fratellastro Terry che lo instrada sulla via dell’arte ma lo “abbandona” soccombendo alla schizofrenia, un trauma che lo condizionerà a lungo. Ci sono gli anni ’70 eclettici e di una creatività impetuosa ma scarna di gratificazioni commerciali e gli anni ’80 che ribaltano la prospettiva, c’è il rifiuto dell’amore (prima) e il felice matrimonio con Iman (poi). Ci sono gli album storici, i pezzi più famosi, c’è Starman, Life on Mars?, Moonage Daydream (la canzone), c’è “Heroes” e non dimenticatevi delle virgolette. Quello che manca al film è l’esposizione piatta, il rosario delle testimonianze politicamente corrette, il culto dello zero a zero. Al suo posto c’è la pista poco battuta dell’esperienza sensoriale, il montaggio che partorisce un’inedita associazione di suoni, parole e immagini dalla chiara valenza poetica. Cinema puro, è davvero incredibile abbia funzionato così bene.

Regia - 4
Sceneggiatura - 4
Fotografia - 4
Sonoro - 5
Emozione - 4.5

4.3