Monte Verità: recensione del film di Stefan Jäger

L’empowerment femminile secondo Stefan Jäger passa per il melò e il documentaristico preferendo infine a questi due modelli – cui non rinuncia mai realmente – il cinema di finzione. Un film d’immagini – o scatti – sulle immagini, la cui bellezza non viene mostrata, piuttosto imprigionata nella memoria di un paese e di un immaginario liberista e libertino che se affascina per questioni ideologiche, stanca per volontà narrative ed estetiche che non soltanto non aderiscono all’oggi, ma che blandamente faticano a raccontare perfino un passato che è stato e che agli occhi di Jäger non è. Mutare la testimonianza di un fatto storico, attraverso il realismo magico non è un’operazione alla portata di tutti, men che meno dell’esordiente Jäger, eppure…

Monte Verità, l’esordio alla regia dell’autore svizzero classe 1970, Stefan Jäger, presentato in anteprima mondiale alla 74° edizione del Locarno Film Festival, e distribuito nelle sale cinematografiche italiane da Draka a partire da giovedì 29 giugno, è un’interessante e atipico modello di documentarismo televisivo – ingenuamente convinto di non esserlo, nonostante toni ed estetiche rimandino direttamente a quei linguaggi – minato da una folle vena appassionata e in qualche modo autodistruttiva che si lega ben presto a dinamiche narrative di finzione, mai del tutto aderenti, eppure onnipresenti.

Il tentativo è quello di rileggere un passato fantasmatico – i primi anni del 1900 – e leggendario, attraverso lenti, sguardi e filtri del tutto originali, a partire dalla fotografia e la ricerca sfrenata della libertà, seppur condotta acriticamente e perfino ripulita, nella maggior parte dei casi, da tutte quelle che sono voci di popoli, testimonianze indirette e così via che vorrebbero quella realtà ben più torbida e discutibile di come Jäger la mostra e racconta nel suo esordio Monte Verità.

Estetismo, hippie e femminilità

Monte Verità - Cinematographe.it

Uno dei titoli probabilmente più memorabili del cinema degli ultimi anni, anch’esso centrato – o se non centrato, quantomeno interessato – sul tema della fotografia, messo in relazione ad una ricostruzione storica estremamente ampia sul desiderio prima individuale e poi collettivo di accoglienza spirituale, naturalistica e libertaria è Godland – Nella terra di Dio del sempre più promettente autore islandese Hlynur Pálmason.

Laddove per Godland, la fotografia appare come strumento magico e di testimonianza incredibilmente vivida, concreta, inossidabile, sociale e armoniosa di un viaggio di crescita e di un risultato ormai prossimo al suo raggiungimento, per Monte Verità diviene valvola di sfogo, e perfino elemento di vendetta e riscatto, in quanto passione soppressa sul nascere da una carica sociale in quel periodo storico predominante, quella del marito, o del capofamiglia, che una volta svanito non può che dar libero sfogo ad una pratica fino a quel momento professionale, perciò costantemente irrigidita da regole e scadenze, mutata in seguito in creatività e strumento di ricerca libertaria, se non addirittura sessuale.

Seppur le vicende di Hanna (Maresi Riegner), giovane donna viennese in fuga da un marito fotografo violento e cieco di fronte alla realtà delle emozioni e della vita, appartengano ad una narrazione fittizia, ciò che segue, ossia la volontà di Hanna di raggiungimento e poi appartenenza alla celebre, leggendaria e utopica comunità del Monte Verità, non può che rimandare ad una ricostruzione storica perfettamente – o quasi – credibile.

È infatti nella rinuncia ad una adesione totale alla cronaca di quei fatti che il film modella un racconto potenzialmente interessante, ed infine fiacco ed inutilmente tedioso e prolisso sulla questione dell’empowerment femminile, della donna libera, forte e creativa che può e deve appartenere ad una nuova forma e idea di società e umanità.

Non più prigioniera di dinamiche bigotte e conservatrici, piuttosto libertina e in contatto diretto, nudo e armonioso con tutto ciò che è arte, natura e intellettualismo, questa nuova società dovrebbe elevarsi, eppure sembrerebbe non riuscire mai realmente a farlo.

monte verità recensione cinematographe.it

Stefan Jäger d’altronde, soffermandosi di tanto in tanto su individui – o veri e propri protagonisti – di quel luogo così definitivamente unico e simbolo che fu e che resta tutt’oggi Monte Verità, ossia la danzatrice statunitense Isadora Duncan, la pianista Ida Hofmann, lo psichiatra Carl Gustav Jung, o ancora lo scrittore Herman Hesse, così come Erich Maria Remarque o la stessa protagonista e fotografa misteriosa e fittizia, Hanna Leitner, riflette sul concetto di intellettualismo libero e sfrenato che può finalmente esprimersi ed esplodere sorretto dalle nuove convenzioni fieramente avanguardiste di un luogo utopico e mitologico unico al mondo, in cui nessuno è più che è stato, piuttosto natura, arte e libertà, dunque scomparsa dell’identità e del ruolo.

Una riflessione senz’altro interessante che dialoga con le forme del documentarismo focalizzato qui sul concetto di estetismo fotografico, di potenziale impressione – ed espressione – su materia concreta di un concetto inevitabilmente astratto che non può che coincidere con la natura stessa, che muove e anima il percorso di fuga e riscatto di Hanna. Una donna in un primo momento fortemente passiva, subordinata e schiava di un sistema e società crudelmente patriarcali, e in un secondo invece libera e aperta senza alcun freno alla vita, al sesso, all’arte e alla libertà.

Libertà che Jäger fa coincidere ben presto con l’elemento più potenzialmente documentaristico dell’intero film, se possibile anche oltre la questione del lascito fotografico, ossia la comunità del Monte Verità che, forte di una possibilità identitaria privata di qualsiasi regola, freno e status, anticipa e di molto il movimento di contestazione giovanile (o hippie) nato intorno alla metà degli anni ’60 a San Francisco e scaturito da una vena fieramente antiviolenza, antidiscriminatoria e antimilitarista.

Se ciò da cui scaturisce l’utopia del Monte Verità rispecchia la vena degli Hippie sul piano ideologico e politico, su quello più direttamente concreto, se ne discosta ben presto, preferendo alla sregolatezza e caos dei primi, l’intellettualismo ordinato, snob e stancamente filosofeggiante – ai limiti del nichilismo – del popolo del Monte Verità.

Quello stesso popolo che per due ore – e si sentono tutte – imprigiona lo spettatore, non tanto per mostrargli ciò che è stato, o ciò che ancora può essere, piuttosto per convincerlo, ed è il caso di dirlo, anche abbastanza tristemente, ad aderire ed applaudire ad un tedioso, borghese e nel modo peggiore radicale lavaggio del cervello che vorrebbe l’arte come perno unico della vita, o meglio, l’intellettualismo, anche a scapito della propria scoperta identitaria, e più in generale dell’amore e della felicità.

È una fortuna che questo avvenga davvero blandamente soddisfacendo via via ciascuno di quei toni e di quelle estetiche grezzamente vintage, illusoriamente retrò e “alte” in termini di ricostruzione storica che hanno contraddistinto la televisione – e fiction – italiana dei primi anni 2000, a partire da titoli quali Vento di ponente, Crociati e soprattutto Elisa di Rivombrosa.

Non risulta perciò sufficiente l’elaborazione del percorso di femminilità di Hanna, instancabilmente immerso nella magnificenza, mai meritatamente fotografata, ed è un paradosso considerato il tema del film, delle ambientazioni montane di Monte Verità.

Monte Verità: valutazione e conclusione

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Passando per i toni dolorosi del melò che ben presto mutano in leggerezza patinata e lucente che vorrebbe ancor prima dei corpi e delle naturali pulsioni proprie di uomini e donne, non tanto la spiritualità, quanto più l’intellettualismo ed il desiderio di raggiungimento d’un potere femminile che non soltanto rimanda a quella negazione di status tipica dei dettami del luogo, ma che ne ribalta piuttosto sorprendentemente e forse involontariamente ciascuna convinzione liberista, a causa di una ribellione femminista fieramente e definitivamente totalitaria, il film si perde, senza ritrovarsi più.

Tanti, troppi linguaggi non possono che coincidere con l’assenza di una forma. Un film indeciso, tanto da non comprendere sé stesso.

Monte Verità è al cinema, a partire da giovedì 29 giugno 2023, distribuzione a cura di Draka.

Regia - 2
Sceneggiatura - 2
Fotografia - 2.5
Recitazione - 2.5
Sonoro - 2
Emozione - 2

2.2