Winter Brothers: recensione del film di Hlynur Pálmason

Winter Brothers è un film cupo girato con una tecnica appariscente e uno stile visivo dinamico e sorprendente.

Hlynur Pálmason ci parla di alienazione – inabissandoci nella ferita dei non amati – nel suo singolare film Winter Brothers: una storia ambientata in Danimarca che vede protagonisti due fratelli interpretati da Elliott Crosset Hove e da Simon Sear, che finiscono per diventare rivali. La location scelta dal pluripremiato regista islandese di A white white day – Segreti nella nebbiaGodland – Nella terra di Dio, consente anche al suo sound designer, Lars Halvorsen, di creare una straordinaria sinfonia industriale in un lungometraggio con una trama visiva sorprendente e montato in un modo che incoraggia un certo grado di disorientamento (ciò che prova il personaggio centrale di Emil) accentuato ad esempio da ambiguità e da ellissi temporali, dai bui corridoi interni della fabbrica, dalla quasi totale assenza di linee in certe scene che mostrano solo ombre e luci artificiali, dove i corpi vanno in processione come se seguissero tutti pedestremente la stessa direzione mentale. Il film drammatico scritto e diretto da Pálmason arriva nei cinema italiani il 25 maggio 2023, grazie alla distribuzione Trent Film.

La storia di due fratelli, un’odissea ambientata in una cava di gesso durante un freddo inverno

Winter Brothers recensione cinematographe.it

Finché la luce non colpisce, non ci sono volti. E non ci sono neanche linee nella primissima scena di Winter Brothers che ci fa conoscere il duro ambiente di lavoro di una cava di gesso. Seguiamo la routine, le abitudini e i rituali di due fratelli nonché colleghi di lavoro: Emil (Elliott Crosset Hove) e Johan (Simon Sears). Emil è la “pecora nera” della fabbrica e della sua famiglia. In un dialogo con il suo capo (Lars Mikkelsen) stima di aver lavorato in fabbrica tra i cinque e i sette anni (qual è la differenza?), e non mostra di avere obiettivi di carriera. Hlynur Pálmason affida il potere del racconto quasi completamente alle immagini. Gli scambi dialogici sono pochi e sostengono quel mix cupo e assurdo che compone la pellicola; c’è ad esempio, a un certo punto, un accenno di tensione fraterna: “Sai qual è il tuo problema?” Johan chiede a Emil. “Non ti piace nessuno. Non ti piacciono le persone“. “Johan, sono una persona“, risponde Emil. “Come posso non piacermi?” . Che ci piaccia o no, Emil è una persona stravagante; ruba sostanze chimiche dalla fabbrica per cui lavora, e poi produce liquori tossici fatti in casa per i colleghi. Desidera ardentemente una giovane donna, Anna (Victoria Carmen Sonne), ma questo desiderio intensifica la sua rivalità con Johan.

Winter Brothers è un film cupo girato con uno stile visivo dinamico e sorprendente

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Winter Brothers è espressione di una voce autoriale. Il regista sceglie una narrazione minimalista per raccontare la storia di Winter Brothers, che ci ricorda i primi lungometraggi di Yorgos Lanthimos. Pálmason attira l’attenzione con uno stile visivo dinamico, enfatizzato dalla suggestiva fotografia di Maria von Hausswolff che cattura efficacemente sia l’incubo della fabbrica dove solo le torce per casco dei lavoratori a malapena riescono a tagliare l’oscurità sia l’atmosfera sporca, fredda e assolutamente inospitale della zona desolata del mondo fuori dalla grotta con volti coperti di gesso e panorami invernali. Non c’è dubbio che in primo piano ci sia l’oscurità che investe il personaggio principale; che probabilmente viene dallo stesso autore, il quale ci spiazza con una tecnica appariscente e magnetica. Dopo aver acquisito un fucile, Emil guarda una videocassetta di addestramento militare e pratica le sue posizioni di tiro; poi la scena della rissa tra i due fratelli seguita dall’estemporaneo trucco di chimica usato per rubare un sorriso all’amata.

Winter Brothers: conclusione e valutazione

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Hlynur Pálmason è un talento da tenere d’occhio per la sua abilità tecnica e di manipolazione comunicativa. Il regista aggiunge mistero alla sua versione di disadattato alla Travis Bickle che ha il nome di Emil, via via che l’uomo si perde nell’oscurità della sua vita quotidiana. Se da un lato il film non funziona mai in modo convenzionalmente soddisfacente e mostra sin da subito un generale disprezzo per le regole del cinema narrativo (come il suo protagonista si accontenta di non avere un posto dove andare); dall’altro riesce a farci entrare nella sua psicologia grazie a una serie di toni/modi insoliti e con uno stile visivo inquietante. Avvertiamo soprattutto alla fine la solitudine, il senso di spaesamento sia letterale che metaforico, che poi è la vita quotidiana di Emil. A questo clima si aggiungono i contributi del compositore Toke Brorson Odin e di Lars Halvorsen che hanno ricreato un paesaggio sonoro perfettamente ruvido e inospitale.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 3.5
Emozione - 3

3.2