Men: recensione dell’horror diretto da Alex Garland

Jessie Buckley scappa dalla città per rifugiarsi in un villaggio in cui tutti gli uomini hanno il volto di Rory Kinnear. Men, horror contenuto, dal 24 agosto 2022 in sala. Dirige Alex Garland.

Men, l’horror diretto da Alex Garland e interpretato da Jessie Buckley e Rory Kinnear, uscita italiana il 24 agosto 2022 per Vértice 360, usa la piattaforma del (e di genere) per lanciarsi in una spericolata metafora su mascolinità tossica e rapporto tra i sessi. Un’architettura tematica imponente consiglia un avvicinamento al film ponderato. Accettare il racconto come esperienza surreale e straniante, lasciarsi portare per mano dalle emozioni e solo più tardi da una risposta intellettuale strutturata, perché Garland non punta sullo shock puro e semplice ma va un po’ oltre, forse è il modo migliore per fare i conti con il suo mistero.

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Nel cinema come nella vita, le domande che uno si fa sono più importanti delle risposte, ammesso che se ne trovino. Alex Garland non ha alcun interesse a sciogliere i principali nodi tematici del film e infatti posa Men su un fondo di indeterminatezza e di ambiguità che infastidirà lo spettatore ansioso di risposte e rassicurazioni, ma davvero non c’è scelta. Il discorso ha una parte di complessità che va rispettata. Il ribaltamento di prospettiva è importante: il film viaggia sul corpo, lo sguardo e i bisogni di una protagonista donna, che però per definirsi e “liberarsi” guarda necessariamente altrove. Per concludere, più o meno inconsciamente, che tutti gli uomini sono uguali. O meglio, perché il punto di domanda si adatta meglio allo spirito della storia, tutti gli uomini sono uguali?

Men: Jessie Buckley incontra un mucchio di… Rory Kinnear

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Harper (Jessie Buckley) ha il disperato bisogno di una buona vacanza perché, a casa sua a Londra, le cose vanno malissimo. Sceglie una splendida villa poco fuori Cotson, campagna inglese all’ennesima potenza, dove spera di respirare scordandosi di tutto. Il suo matrimonio con James (Paapa Essiedu) è finito nel modo peggiore possibile e non è un’esagerazione. In più si sente in colpa per quello che è successo, anche se non dovrebbe.

James è infelice e irrisolto, sparge tossine sul suo matrimonio, ha un tremendo istinto manipolatore. Risponde alla fine della storia con un capolavoro di ostilità e di attitudine passivo aggressiva. Arriva al punto di minacciare il suicidio in caso di abbandono e in più aggiunge anche altro, a questo punto Harper dice basta. Nulla di tutto questo scorre in presa diretta, la verità (incompleta) di Men si svela un frammento dopo l’altro. Come schegge impazzite di un puzzle, che si ricompongono sbirciando dal buco della serratura, una galleria di dolorosi flashback portano lo spettatore dove è necessario che stia. James, sbattuto fuori di casa, forza la porta dei vicini del piano di sopra, sale sul balcone e cade di sotto. Forse perché gli manca l’appoggio nel tentativo di tornare a casa, forse perché si lascia andare. Non sappiamo, lei neanche, Alex Garland non ce lo vuole dire o forse non può, da che parte stia la verità. L’interiorità di Harper è funestata dal mistero irrisolvibile cristallizzato nell’ultimo assurdo sguardo scambiato con il marito che cade. Serve una vacanza.

Peccato che Cotson sia l’ultimo posto sensato per una vacanza rilassante. Questo ovviamente a posteriori, Harper non può saperlo quando arriva, contagiata dall’eleganza pastorale del posto. Comincia tutto con la gentilezza un po’ insinuante ma tutto sommato inoffensiva del padrone di casa, Rory Kinnear. Poi è la volta di un uomo misterioso che si presenta disturbando l’incanto di una passeggiata nei boschi e da quel momento in poi comincia a stalkerarla pesantemente, Rory Kinnear. Un ragazzino molesto, Rory Kinnear. Il prete che non la capisce anzi la colpevolizza, Rory Kinnear. Due tizi non proprio raccomandabili che la guardano storta nel pub locale, due volte Rory Kinnear. Capito? Sempre la solita maledettissima faccia, Harper non reagisce alla stranezza piuttosto l’interiorizza, la dà per scontata, ne accetta senza colpo ferire le implicazioni. L’uomo singolo come il tassello di una storia più grande, intessuta di abuso e intrusione, violenza fisica e psicologica. Harper risponde, prima spaventandosi, poi via via più salda e consapevole. Il cuore segreto del film è la costruzione di un’identità femminile libera da condizionamenti e da intrusioni.

Men mescola atmosfera, paura e un ricco corredo di simboli

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Alex Garland, sceneggiatore (28 giorni dopo) ma anche autore nel senso più tridimensionale del termine (Ex Machina o magari Annientamento), ha sempre puntato sul genere “intelligente”, sulla forza della grande metafora e su un discorso d’identità fluttuanti. Cinema d’atmosfera e di contenuti. Men modella, la fotografia è di Rob Hardy, bravissimo, un’immagine nei toni surreale e nell’allusività potentissima, intrisa di suggestioni folk e immersa in un languore di sogno. Sferzata da “intromissioni” di colore, rosso acceso, rosso violento, perché bisogna restituire il senso del travaglio intimo ed esteriore della protagonista. Incorniciato dall’irrealtà e dalla deformazione fantastica operata sul racconto dalla suggestiva colonna sonora di Ben Salisbury e Geoff Barrow.

Men mette uno di fronte all’altra un uomo che cambia sempre, Rory Kinnear, una donna che non cambia mai, Jessie Buckley. Almeno superficialmente, perché la verità è diversa; lei evolve, lui replica e basta. Alex Garland esplora la tossicità dei rapporti uomo-donna schierandosi apertamente (dalla parte di lei), senza offrire valide soluzioni (per risolvere i problemi di lui). Analizza il problema, non va più in là di così. E il problema è complesso. Il problema della donna è la necessità di costruire un’identità e un percorso di vita autonomo, integro e libero da intrusioni violente. Jessie Buckley è l’eroina piena di risorse, ma anche molto umana, di un viaggio di appropriazione e scoperta del sé. Quello che a Men importa, con la sua atmosfera inquietante e il suo senso onirico delle cose, è raccontare l’abuso, fisico e mentale, che l’uomo impone da sempre alla donna. Il maschio che non sa guardarsi dentro e non sa capirsi, si appropria della donna nel disperato tentativo di trovare, chiusa in lei, la risposta alla sua confusione. La donna, liberata dai fardelli di un senso di colpa che non le appartiene e che non merita, trova la sua strada. Il problema di un uomo è la crisi di tutti. Nomi diversi, stesso volto.

Tecnicamente superbo, ambizioso, film “pandemico” perché fa economia di personaggi e ne approfondisce la distanza, incastro di stili di recitazione volutamente non assimilabili, insinuante e pericoloso l’uno (Kinnear), struggente ma più consapevole l’altro (Buckley), entrambi eccellenti, Men è materia filmica vitale ma imperfetta. Disegna una grande metafora e la puntella con notevole efficacia sul piano dell’atmosfera. Riempie la storia di influenze, bibliche, paganeggianti, folk, mitologiche, ma non sempre riesce a dargli peso e concretezza all’interno della narrazione, la grande metafora è solo abbozzata. Questo, sommato alla naturale elusività del racconto, impedisce un abbraccio senza riserve al film e ai suoi misteri.

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 4
Recitazione - 4
Sonoro - 4
Emozione - 2.5

3.3