Venezia72 – Looking for Grace: recensione

Una fuga fatta con leggerezza stipula, in Looking for Grace, presentato stamane alla 72ma Mostra del Cinema di Venezia, una rosa di eventi buffi e contorti in cui il lieto fine sembra avvicinarsi gradualmente, salvo poi volatilizzarsi in un batter d’occhio, quasi senza alcun dolore.
La storia raccontata dalla regista australiana Sue Brooks, unica donna in gara insieme a Laurie Anderson, è quella di un’adolescente, la ribelle e carina quindicenne Grace (Odessa Young), la quale decide di scappare via insieme alla sua migliore amica (Sappho, interpretata da Kenya Pearson), derubando ai genitori una cifra alquanto considerevole di denaro. La motivazione sta nell’andare a vedere il concerto di una nota band; per raggiungere il luogo ci vorrà almeno un giorno e mezzo di viaggio, ma nel bus che le conduce al sogno Grace e Sappho fanno un incontro davvero interessante: un ragazzotto apparentemente acqua e sapone farà credere a Grace di essere una principessa, iniettandole in corpo la giusta dose di adrenalina che serve a sentirsi liberi, giovani e spensierati, salvo poi risvegliarsi la mattina seguente sola e senza un soldo.

Looking for Grace: una fuga per esplorare i meandri più nascosti dei rapporti familiari

La pellicola inizia con un flashback quasi banale e scontato, ma sapientemente rilassante, tracciando le autostrade e i terreni circostanti con la stessa minuziosità fotografica del miglior pennello impressionista (quasi non si riesce a decifrare se si tratti di una panoramica stradale o di un’opera d’arte), per poi inerpicarsi nella ragnatela sentimentale di ogni personaggio. Dal meno importante al più fondamentale, tutti vengono passati al setaccio per una manciata di minuti (il film appare suddiviso in capitoli, ideali per orientare lo spettatore tra gli sbalzi temporali), necessari affinché il pubblico capisca che quella che abbiamo di fronte non è per niente una famiglia perfetta, bensì una di quella come tante, con segreti, bugie, amori mai rivelati e sensazioni mai comprese.

Looking for Grace

Dan e Denise, i genitori di Grace (interpretati rispettivamente da Richard Roxburgh e Radha Mitchel) rimangono lontani anni luce dalla situazione in cui riversano, quasi distaccati e confusi, e l’unica cosa che sanno fare è rintracciare un anziano detective privato, che più che un poliziotto in gamba sembra essere un consulente familiare.
Tra gli sprazzi di vita che la regista fa passare sotto il naso emerge in particolare la scena in cui Denise si rammarica di una tazza rotta e infine, dopo un vano tentativo di riaggiustarla, la butta via, come a voler comunicare che quando accade uno strappo tra i rapporti personali è davvero difficile ripristinare la situazione.

Sue Brooks articola una vicenda semplice con la minuzia sofisticata di un thriller, sconvolgendo il pubblico, a tratti divertito dalla goffaggine dei protagonisti, i quali sembrano muoversi sullo schermo come marionette, al pari di maschere alle quali è stato appioppato un ruolo non idoneo alla loro personalità. No, non fraintendetemi, ciò non significa affatto che non siano in grado di recitare; solo che Grace, Dan, Denise sono esattamente come la gente normale, quella che vive fuori dal grande schermo: si calano in ruoli che non hanno scelto, talvolta per una consuetudine dettata dalla società, dai costumi e, nella maniera più remota, dalla voglia di trasgredire le regole.

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Resta solo una domanda: possono, delle persone che hanno vissuto insieme una vita intera, ritrovarsi a parlare e a non riconoscersi come degli autentici sconosciuti? Con la musica leggera, inavvertita e a tratti fastidiosa della routine, lasciate che quest’opera vi scivoli addosso, conducendovi a meditare sulla vostra vita e sui ruoli ai quali noi stessi ci avvinghiamo.

E alla fine, come in Looking for Grace, vi troverete on the road, pronti a ricominciare il vostro viaggio verso un orizzonte illuminato dal sole.

Giudizio Cinematographe

Regia - 2.7
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 3.2
Recitazione - 3
Emozione - 3.7

3.1

Voto Finale