Lo sciame: recensione del film Neflix di Just Philippot

Definito frettolosamente 'horror', Lo Sciame è la parabola angosciosa (ma riuscita solo in parte) di un sacrificio materno e un conflitto genitoriale, espressi attraverso il bisogno di sangue e carne di una coltivazione di locuste. Dal 6 agosto su Netflix.

Parte integrante della dieta quotidiana già in alcune parti del mondo come Asia, Africa e Australia, l’entomofagia fatica ancora a considerarsi ‘possibile’ soprattutto in Europa dove, quel consumo di carne d’insetto, rappresenta piuttosto assaggio folcloristico da episodio isolato. Il film diretto dal francese Just Philippot Lo Sciame (La Nuée nel suo titolo originale) immagina invece, nonostante la comune diffidenza, una piccola realtà agricola in cui una madre (Suliane Brahim) alleva sola, in una serra messa in piedi nel suo casale, locuste da vendere ad altrettanti agricoltori come mangime per animali o come cibo destinato a palati raffinati per il suo alto contenuto proteico.

Nel film Netflix Lo Sciame una madre alleva cavallette, ma presto la sua diventa un’ossessione

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Ma lo sforzo della cura quotidiana pare non ripagarla economicamente e malgrado la lirica, l’erba fresca e l’idratazione le cavallette non depongono più uova, costringendola a rinunce momentanee con clienti insoddisfatti da un prodotto che non decolla. Di quella stra-ordinaria attività i figli, soprattutto la grande (Marie Narbonne), a scuola ne subisce lo scherno dei compagni, mentre il minore (Raphael Romand), riservato e affannato da una costrizione al petto, di locuste ne tiene alcune in camera, premonendo, nel tenerle fra le dita, un desiderio di carne e sangue che si rivelerà molto presto letale.

Cannibali e vampireschi, gli insetti chiusi nelle serre ad alveare dopo aver assaggiato tessuti umani cominciano infatti a moltiplicarsi, a raddoppiare di peso e così a rinvigorirne il rendimento danaroso, alimentando altresì l’ossessione e il sacrificio di sangue di Virginie, tanto da concedergli parti del suo corpo come nutrimento, ma nascondendo ai figli quello che di fatto è diventato un segreto irrivelabile.

Tra cinema vérité rurale e derive (finali) horror

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Definito come horror ma capace di manifestare il potenziale nel suo incedere drammatico, il secondo lungometraggio e il primo di finzione diretto da Philippot, ritrova nella tradizione contemporanea del cinema rurale inglese visto in God’s Own Country (2017) di Francis Lee e l’ottimo The Levelling (2016) di Hope Dickson Leach, la rievocazione amara e massacrante della vita agricola, scandita da tempi facchineschi dettati dalla luce del sole e da privazioni dovute all’isolamento prolungato, tanto da compromettere la sfera degli impulsi umani, franati da ruvidezza e severità usati come arma di sopravvivenza. A spiccare, nella pellicola distribuita su Netflix e presentata lo scorso anno nella Settimana Internazionale della Critica a Cannes, è infatti proprio la creazione di un mondo a parte, di uno stile di vita atipico e alienato dall’ordinario; di un’inquietante fissazione crescente di produttività a tutti i costi e della sua deriva orrorifica nella mente e nel corpo della sua protagonista sacrificata, madre in perpetua frattura con una figlia desiderosa di normalità e un figlio incapace di distaccarsi da un nucleo famigliare chiuso e anticonformista.

Camera a mano e uso della luce fortemente naturalistico, Lo Sciame sprigiona la sua denotazione di film di genere piuttosto nel suo finale a effetto di riconciliazione che nella sua andatura complessiva, ricordando di inserire una parte horror ispirata a film catastrofici quali Infested (2002) o Swarm – Lo sciame che uccide (1978) fuori tempo massimo e conscio di non aderire appieno e in modo soddisfacente ai codici del genere. Alla scrittura disadorna e, a ben vedere, fuorché sfarzosa dei due sceneggiatori Jérôme Genevray e Franck Victor interessa scrutare l’offerta carnale di Virginie a insetti ripresi in primi piani dettagliatissimi, nella loro paurosa espansione e nel loro zillare notturno, pronte a spolpare carne umana (o animale) e trovarne linfa vitale per cambiare pelle gradualmente, mutando da prede a predatori.

Riconciliazioni materne e metafore incompiute

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Di orribilmente allucinante Lo Sciame non ha dunque da offrire canoni o previsioni standardizzate, ma anzi la sua denominazione da horror potrebbe depistare la natura stessa del film, declinato invece nel suo temperamento rurale e psicologico, e del rapporto d’interconnessione fra stile di vita naturale e conflitto materno-femmineo. Innalzato dalla recitazione fisica e scorbutica di una Suliane Brahim centro nevralgico dell’intera pellicola, il film di Philippot vorrebbe scavare nelle membra e nel sangue offerto in pasto a insetti brulicanti e in continua riproduzione la graduale riconciliazione familiare di un attrito incompiuto; lasciandosi sfuggire nel ritmo godibilmente composto l’evoluzione personale e relazionale di una madre e una figlia, di cui però, mancando di tensione risolutiva, lascia l’intero film in una bolla involuta. Mai davvero pronta ad attaccare (e divorare) il suo spettatore.

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 3
Recitazione - 3
Sonoro - 3
Emozione - 2.5

2.8

Tags: Netflix