Leaving Neverland: recensione del documentario di Dan Reed su Michael Jackson

Leaving Neverland ci porta nelle vite di Wade Robson e James Safechuck, mentre parlano del loro rapporto con Michael Jackson e dei presunti abusi subiti.

È innegabile che in queste settimane, dopo la premiere al Sundance Film Festival, Leaving Neverland sia uno dei film di cui più si sta disquisendo a livello mondiale. Non c’è che dire, Michael Jackson e la sua grandezza artistica sono stati talmente indefinibili e dirompenti che negli anni tabloid, giornali e osservatori si sono scatenati cercando in tutti i modi di poter cogliere le migliori (e le peggiori) stranezze della più grande stella del pop.

In un periodo che va dagli anni ’80 ai giorni nostri, sono state innumerevoli le persecuzioni, le dicerie e le voci che hanno circondato Michael Jackson, in primis la sua volontà di schiarirsi la pelle, la sua germofobia, i suoi interventi chirurgici, la sua adorazione verso Diana Ross, di cui si vociferò che il cantante avesse un santuario in suo onore, il suo rapporto di amicizia con uno scimpanzé, Bubbles, e ovviamente il motivo per cui ne stiamo ancora parlando, a dieci anni dalla morte, le presunte accuse di pedofilia. D’altro canto fu tutto questo a spingere molte testate ad apostrofare l’artista come Wacko Jacko.

Probabilmente di molte di queste cose pochi se ne ricorderanno davvero: purtroppo tutto questo è accaduto, non nel vero senso della parola, poiché i tabloid di stranezze e di pettegolezzi ne hanno pubblicati talmente tanti che si fa fatica davvero a pensare che qualcuno potesse, e possa, crederci. Ma se ancora oggi se ne parla è perché attorno al potere economico, discografico e imprenditoriale di Michael Jackson esiste una verità ancora troppo opaca, che nessun documentario potrà mai chiarire. Come scrisse James Baldwin nel 1985: “Non sarà perdonato facilmente per aver cambiato così tante carte in tavola, per aver dannatamente ottenuto il massimo possibile. Spero che abbia il buon senso di capirlo e la fortuna di strappare la sua vita dalle fauci di un successo carnivoro”.

Leaving Neverland: il documentario di Dan Reed

Leaving Neverland

Ci teniamo a ricordare che Michael Jackson, a partire dal 1993, fu accusato di abusi sessuali su minore, regolando extragiudizialmente le accuse, per poi subire un processo, nel 2003, dal quale verrà assolto con formula piena da tutte le accuse nel 2005.

Ma tornando a Leaving Neverland, che è andato in onda su HBO e che il 19 e 20 marzo sarà disponibile in Italia sul canale 9, questo docufilm ci porta nelle vite di due famiglie, o meglio di due persone, Wade Robson e James Safechuck. I due protagonisti, oggi trentenni, si raccontano davanti una cinepresa, per quattro ore di documentario, parlando apertamente della loro esperienza di vita, della conoscenza e del loro rapporto con Michael Jackson, da cui dichiarano di aver subito numerosi e prolungati abusi quando erano dei bambini di 7 e 10 anni.

Wade Robson è un ballerino australiano che iniziò ad esibirsi all’età di cinque anni. Robson era molto talentuoso e vinse un concorso di danza che gli permise di incontrare Michael Jackson. Il cantante notò la sua grande bravura e lo aiutò nel corso degli anni, tant’è che la sua carriera partì proprio grazie al suo sostegno, oltre che lavorativo anche economico. Robson si trasferì a fine anni ’80 con la famiglia a Los Angeles per poter perseguire il suo sogno di diventare un grande ballerino e Jackson spesso invitò la famiglia a stare da lui a casa sua, al Ranch Neverland, in California. Durante questi periodi Robson afferma di essere stato abusato sessualmente, da quando aveva 7 anni fino ai 14.

James Safechuck e Michael Jackson si sono incontrati mentre entrambi recitavano in una pubblicità della Pepsi negli Stati Uniti. Anche James Safechuck era un bambino quando frequentò con la famiglia Neverland, e anche secondo lui gli abusi sessuali avvennero ripetutamente durante i suoi soggiorni li, oltre che anche mentre Jackson era in tournée.

Leaving Neverland sarà disponibile il 19 e 20 marzo sul canale 9

Leaving Neverland

Leaving Neverland, diretto da Dan Reed, è un documentario molto controverso, poiché non ci sono prove ufficiali che dimostrino che Jackson abbia realmente abusato di queste due persone. Mentre si osservano e si ascoltano Safechuck e Robson parlare e descrivere nel dettaglio tutto ciò che ha riguardato le loro molestie e gli abusi, è impossibile restare impassibili. In questo il documentario è molto abile nel diventare persuasivo, ed è per questo che si può definire un docufilm: è tutto talmente calibrato, preciso, analitico e finalizzato a sconvolgere che più che una confessione a cuore aperto sembra una sceneggiatura artefatta.

Ma non è solo questo ciò che disturba durante la visione del docufilm. Ciò che ci si chiede sin da subito è il motivo per cui, all’interno di un documentario che possa definirsi quantomeno serio e imparziale, il regista non abbia contattato qualcuno vicino a Michael Jackson per offrire un proprio punto di vista, un contraddittorio fornito magari da amici, parenti, ex compagni di band, organizzatori di tour, manager, dipendenti di Neverland, per chiedere se avessero mai visto qualcosa di sospetto e ottenere una risposta alle accuse.

Ma tutto questo il regista non l’ha fatto. Anzi, in fase di montaggio, Reed ha deciso di tagliare le interviste che aveva realizzato a diversi individui della polizia e della pubblica accusa coinvolte nelle accuse a Jackson del 1993 e nel suo processo del 2005, perché considerate da lui “poco necessarie”. Questo ci fa subito comprendere che il documentario, come anche il regista, sceglie chiaramente da che parte stare e persuade anche lo spettatore allo stesso modo. Questa unilateralità di Leaving Neverland può essere confermata anche dalla decisione del regista di non contattare Macaulay Culkin e Brett Barnes, entrambi amici di Jackson, che dichiararono sempre l’innocenza del cantante, soprattutto nel processo del 2005. Secondo il regista “avendo loro negato fino ad oggi qualsiasi approccio sessuale da parte di Jackson, non era sua intenzione convincerli del contrario”.

Leaving Neverland ci porta nelle vite di Wade Robson e James Safechuck, mentre parlano del loro rapporto con Michael Jackson e dei presunti abusi subiti

Leaving Neverland

Per quanto sia vero che un film o che, come in questo caso, un docufilm non è un processo e che non è un luogo che può esprimere quanto un tribunale la veridicità totale di ciò che espone, è anche vero che però ogni documentario che si rispetti ha una sua prospettiva, che può essere messa in discussione e che può essere respinta, anche legalmente. Anche perché a volte Leaving Neverland sembra più una deposizione che un documentario.

Infatti le criticità maggiori delle testimonianze offerte dai due protagonisti riguardano proprio il loro passato e il loro coinvolgimento nel processo a Michael Jackson nel 2003.  Robson ha testimoniato sotto giuramento nel 1993 e nel 2005 che Jackson non l’aveva mai molestato, affermando che “mai niente di inappropriato era accaduto con il Signor Jackson”. E per 20 anni inoltre ha negato in numerose interviste, anche dopo la morte di Jackson, di essere stato vittima di abusi da parte sua, dichiarando di essere grato per tutto quello che il cantante aveva fatto per lui. Anche Safechuck difese MJ quando fu accusato di molestie per la prima volta nel 1993, decidendo però di non testimoniare al processo nel 2005. Entrambi gli uomini, riguardo il loro modo di aver ritrattato per anni il loro punto di vista, nel documentario riconoscono di aver mentito, affermando che ci sono voluti decenni per accettare i fatti e per dichiarare le loro verità. Ed è proprio qui che il documentario diventa divisivo.

Ognuno può farsi l’idea che preferisce, se credere o non credere a ciò che vede e ascolta, nonostante il docufilm spinga in una direzione ben precisa. Noi preferiremmo lasciare nelle mani di altri esseri umani, più saggi, come giudici e avvocati, emettere un punto di vista sulla possibilità o l’impossibilità di quello che è successo tra Jackson e i bambini durante gli ultimi anni.

Noi, in questa sede, ci limitiamo a giudicare l’opera drammaturgica di Leaving Neverland. Durante le quattro ore del docufilm, è inevitabile chiedersi se esse sembrino stranamente sproporzionate, soprattutto se passiamo in analisi due caratteristiche complesse, ovvero la sua struttura e la messa in scena in cui emergono diversi problemi. La drammaticità di ciascuna delle testimonianze sembrano somigliarsi in modo molto particolare. E non solo dal punto di vista narrativo ma espositivo: non solo sono spesso speculari le sfumature e i toni delle loro voci, facendo quasi in modo che tra i due si stabilisca una sorta di eco che rimbalza tra loro e le loro famiglie, ma è innegabile che ci sia una sorta di linea narrativa che li lega.

Leaving Neverland è molto persuasivo: è tutto molto calcolato e finalizzato a sconvolgere

Leaving Neverland

Inoltre la struttura è così rigida, così precisa che non lascia spazio per la riflessione. Il tutto è molto calcolato, asettico, troppo artificioso e questo per un documentario è un problema. Ciò che si vede sono tanti documenti, tante riprese dall’alto lunghe e inutili dal punto di vista narrativo, usate solo per assenza di altro, tante foto, tanti collage, tante manipolazioni evidenti delle immagini di archivio, in cui sono state scelte determinate foto di Michael Jackson in cui la sua figura è sfocata, o è immortalata mentre guarda altrove, o è nell’ombra, con l’intenzione di veicolare l’idea di quanto fosse una persona piena di segreti oscuri. Le foto logicamente mirano a illustrare la sua malvagità presunta, così da far scattare nello spettatore la consapevolezza di essere dinanzi ad un mostro, al male ontologico.

Ciò che è più deprecabile è l’etica narrativa di Leaving Neverland e del regista, che sceglie di intervistare solo i due protagonisti e i loro familiari, con primi piani e atmosfere strategiche, senza offrire una pluralità di punti di vista. Sarebbe stato più onesto inserire voci fuori dal coro che potessero permettere il giusto approfondimento e la giusta analisi delle vicende. Si assiste a tanti documenti, tante foto di repertorio, ma in fin dei conti non vediamo alcun documentario: è la parola di due uomini contro una persona che non c’è più e che non può difendersi. Per questo Leaving Neverland non ha alcuna integrità giornalistica. 

Indubbiamente Leaving Neverland ha riacceso il dibattito sulla colpevolezza del cantante, spingendo sempre più radio a non trasmettere più la sua musica: le sue canzoni sono state bandite da 23 radio del Quebec, dalle due più grandi emittenti della Nuova Zelanda e dalla australiana Nova Entertainment Company. Addirittura anche il produttore esecutivo dei Simpson ha deciso di cancellare dai cataloghi l’episodio in cui il Re del pop prestava la voce a uno dei personaggi. Questa damnatio memoriae che sta travolgendo il cantante è tanto assurda quanto incredibile: ciò che si dovrebbe asserire, in casi come questi, è che ascoltare questi uomini, al di là della veridicità delle loro parole, non dovrebbe cambiare una nota della musica di Michael Jackson. Ma sembra essere sempre più difficile separare l’arte dall’artista.

Regia - 1
Fotografia - 1.5
Sonoro - 1
Emozione - 2

1.4