#IoSonoQui: recensione del film di Eric Lartigau

Ciliegi galeotti, social e le inconciliabili (?) distanze della vita. #IoSonoQui, in sala per Officine Ubu dal 14 ottobre 2021, non brilla d'originalità ma ha pudore e tenerezza da vendere.

Non bisogna chiedere a #IoSonoQui più di quanto il film non possa e non voglia dare. Applicare etichetta: commedia sentimentale dall’umore agrodolce, diretta da Eric Lartigau e distribuita nelle sale italiane da Officine Ubu a partire dal 14 ottobre 2021. Non c’è nulla qui dentro che non sia stato detto prima, che si parli di amore, distanze, social e cultura. Bene, male, non ha molta importanza. Ciò che conta, è che alla sobrietà della confezione e alla prevedibilità (non è sempre un male) dei temi si accompagna un tono malinconico e un pudore di fondo che si accolgono con favore.

La storia di Stéphane e Soo tra Instagram, la Corea e i ciliegi in fiore

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Il regista Eric Lartigau vanta una certa familiarità con il pubblico italiano per via del successo, qualche anno fa, de La Famiglia Bélier. Stavolta tocca a Stéphane (Alain Chabat), chef di mezza età e di un certo successo. Ha un bel locale nei paesi baschi (francesi), due figli cresciuti tutto sommato bene e la tendenza a concentrarsi troppo su ciò che lo riguarda e a scordarsi del resto. Stéphane ha anche un piccolo segreto. Un segreto social, sentimentale e transcontinentale. Niente di meno.

Grazie a Instagram Stéphane fa la conoscenza virtuale di Soo (Doona Bae), giovane donna coreana con cui condivide un paio di passioni. Prima di tutto l’arte, la donna di fatto rifà a distanza l’arredamento del locale di Stéphane, poi il dirsi buondì via chat e per finire i ciliegi in fiore. Sono proprio i ciliegi la scintilla di cui si serve #IoSonoQui, sceneggia Lartigau in compagnia di Thomas Bidegain, braccio destro di Jacques Audiard, per scatenare l’incendio.

L’uomo decide di sfruttare la fioritura per mollare tutto, scapparsene in Corea e lì, magari, da cosa nasce cosa. Quello che Stéphane non prevede è la reazione (comprensibilmente) guardinga della donna, che diserta l’appuntamento all’areoporto e lascia il protagonista solo come un cane. Stéphane non si arrende, resta all’areoporto ad aspettare che la donna cambi idea e venga a prenderlo, documentando sui social ogni passo della sua folle tenacia amorosa. Diventerà un campione di visualizzazioni, trovando il tempo per imparare qualcosa sull’amore, la sua vita, il peso delle distanze e un concetto coreano difficile da tradurre letteralmente ma che si può inquadrare parlando di intelligenza emotiva.

#IoSonoQui: amore, distanze e social

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In fondo, #IoSonoQui non è un film sui social più di quanto Lei (Her) non fosse un film sull’intelligenza artificiale. Il vagabondare areoportuale del protagonista ha qualcosa dell’incedere dello stralunato “alieno” interpretato da Tom Hanks in The Terminal, regia di Steven Spielberg. Forse che si può parlare di fusi e incomprensioni senza citare, l’ambientazione asiatica qui è un aggravante, la confusione e lo stordimento di Lost in Traslation? Questo per dire che il film di Eric Lartigau ha le idee chiare sui modelli da prendere in prestito, dosando gli ingredienti senza permettere a un sapore di prendere il sopravvento su tutti gli altri.

Di tante cose parla il film. Delle trappole e delle seduzioni nascoste nella dialettica reale/virtuale offerta ogni giorno dall’universo social. Delle distanze, fisiche, spirituali, geografiche, culturali. E di come queste distanze riflettano l’incapacità degli esseri umani di trovare un linguaggio comune capace di superare i limiti della propria interiorità e solitudine. Stéphane scappa e cerca l’amore. Troverà… anticipare troppo sarebbe un peccato, quello che si può raccontare è che molte delle risposte che il protagonista insegue sono più vicine del previsto.

#IoSonoQui usa i social e relative dinamiche per quello che possono offrire e non va molto oltre, ma ha il merito di non approcciarsi all’argomento con moralismi di sorta. Flirta con idee sulla vita e l’amore di una certa consistenza, come quelle sopra esposte, magari non scendendo troppo in profondità, e senza proprorre soluzioni sconvolgenti. Ma trovando il modo di catturare l’attenzione, forte dell’empatia istintiva del regista nei confronti della storia e di chi la abita. Anche, soprattutto, grazie alla mano ferma del protagonista Alain Chabat che naviga lungo il film con grazia, pudore e un pizzico di malinconia. Irrobustendo il discorso con lampi di calma dignità.

Regia - 2.5
Sceneggiatura - 2.5
Fotografia - 3
Recitazione - 2.5
Sonoro - 2
Emozione - 2.5

2.5