Elisa: recensione del film Di Leonardo di Costanzo, da Venezia 82
Il film di Leonardo Di Costanzo, con Barbara Ronchi, presentato in concorso alla 82ª edizione del Festival di Venezia
La memoria come vuoto da colmare, il silenzio come scudo per il ricordo, una psiche impenetrabile, un’introspezione necessaria quanto complessa. Elisa, presentato in concorso alla 82ª Mostra del Cinema di Venezia, è il nuovo lavoro di Leonardo Di Costanzo, che dopo il suo ultimo Ariaferma (2021), torna al Lido con una nuova esplorazione dell’universo carcerario, in cui mette a fuoco il crimine e non solamente più la detenzione. Barbara Ronchi interpreta la protagonista, donna condannata per un delitto inspiegabile che lei stessa non sa spiegare, né raccontare. Al suo fianco Roschdy Zem nei panni del criminologo Alaoui, con un cast che include anche Diego Ribon e Valeria Golino. La fotografia, affidata a Luca Bigazzi, accompagna il montaggio di Carlotta Cristiani e la sceneggiatura, scritta a sei mani da Bruno Oliviero, Valia Santella e dallo stesso regista. L’opera trae ispirazione dal saggio Io volevo ucciderla dei criminologi Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali e dal caso reale di Stefania Albertani, che nel 2009 sconvolse l’opinione pubblica.
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Il silenzio che separa vita e morte

Elisa ha trentacinque anni ed è in carcere da oltre dieci, condannata per aver ucciso la sorella maggiore e averne bruciato il corpo, senza movente né spiegazioni, schiava di un’amnesia che sembra aver cancellato ogni dettaglio di quel giorno. Appare distante, impenetrabile, come se avesse sepolto il passato sotto strati di silenzio. L’arrivo del criminologo Alaoui rompe questo equilibrio e la spinge a partecipare ai suoi colloqui di ricerca, a rimettere in gioco ricordi e parole che Elisa non vuole affrontare; resistente ma curiosa di sé stessa lentamente cede, trasformando le conversazioni in un filo sottile che la obbliga a guardare l’ombra del suo gesto, senza rivelazioni improvvise ma con frammenti, sprazzi confusi di vita familiare che riaffiorano come da un abisso, segnando l’inizio di un cammino fragile e doloroso verso la verità di sé e il punto più oscuro della sua memoria.
Il film non racconta il crimine, bensì il rapporto di esso con il dolore e con la possibilità di dominarlo, di nominarlo. Il silenzio diviene l’unica possibile forma linguaggio, con sospensioni, vuoti, tempi dilatati che riflettono lo stato interiore della protagonista, mentre l’oscillazione tra parola e mutismo diventa metafora di un conflitto più profondo tra la vita negata e il desiderio di ricostruirne una nuova.
“Ho avuto la forza di togliere una vita per averne una mia” afferma la protagonista che poi ammette “a volte non si può spiegare con le parole, serve farlo con i fatti”, condensando in queste due asserzioni il senso del racconto: il gesto come affermazione di sé e la parola come strumento fragile e insufficiente. Lo spettatore si muove, quindi, nello stesso smarrimento di Elisa, nello smarrimento di un’opera che indaga il trauma e la sua capacità di cancellare e riscrivere la coscienza, indaga il valore dell’ascolto come unico varco possibile verso l’umano e verso la psiche.
Elisa: valutazione e conclusione
Elisa è un film che non cerca scorciatoie: è lento, greve, volutamente faticoso e proprio in questo trova la sua verità. Barbara Ronchi offre una prova straordinaria, riuscendo a restituire la complessità di un personaggio al tempo stesso respingente e fragile, con Roschdy Zem nei panni dell’equilibratore che fa da incarnazione filmica dello spettatore. Accanto a loro l’ambigua figura di Valeria Golino, in un ruolo che il film lascia troppo ai margini: una sua maggior presenza avrebbe potuto fare da contrappunto prezioso, da sguardo opposto alla violenza capace di amplificare il conflitto interiore dell’opera e di chi la fruisce. Leonardo Di Costanzo lavora per sottrazione, rifiutando la retorica e costruendo un percorso che non offre spiegazioni ma costringe a confrontarsi con le zone d’ombra. È un cinema scomodo, che pesa addosso e non lascia indifferenti.
Alla fine resta il dubbio e non la risposta. Elisa non cerca di spiegare né di assolvere ma fa vivere allo spettatore l’esperienza del silenzio e della memoria che riaffiora. Il film è un’indagine psicologica e morale, un viaggio dentro un abisso che non concede redenzioni facili. La fotografia di Luca Bigazzi gioca un ruolo essenziale: corridoi, boschi, spazi ordinati e sospesi rispecchiano l’interiorità della protagonista, rivelando che l’ordine è solo apparente e che il caos pulsa sotto la superficie. Dentro e fuori, silenzio e parola, colpa e possibilità di rinascita si intrecciano in un racconto che non consola ma interroga. È un film che chiede tempo, pretende attenzione e lascia lo spettatore con la consapevolezza che l’umano non si può incasellare ma solo ascoltare nei suoi vuoti, nei suoi silenzi e nelle sue contraddizioni.