Doctor Strange: recensione

Quanti mondi conosciamo e in quanti modi siamo disposti a vivere? È giusto credere nella perfezione ciclica della materia e nella sua inevitabile mortalità o esiste una dimensione in cui questa matematica esistenziale si annulla?

Doctor Strange, l’ultimo film Marvel tratto dall’omonimo fumetto e diretto da Scott Derrickson, in uscita nelle sale italiane il 26 ottobre 2016 distribuito da Walt Disney Studios Motion Pictures, ci introietta in un mondo che non è mai ciò che sembra in superficie, un mondo in cui gli umani sembrano non essere contemplati e in cui la loro effimera mortalità – il consumarsi prezioso del tempo – va tutelata come un valore inalienabile.

Il film con Benedict Cumberbatch ci porta all’esplorazione di un volto poco noto dei cinecomic Marvel, ovvero quello del misticismo. Abituati a veder impelagati gli Avengers (o chi per loro) in faccende terrene, correndo perennemente in aiuto del popolo terrestre e amalgamandosi con lo stesso, abbiamo quasi dimenticato l’esistenza di dei che manipolano il multiverso, amandosi, ostacolandosi, lottando e plasmando esseri eroici con abilità fuori dal comune.

Abbiamo dimenticato il lato spirituale della vita almeno quanto il protagonista della quattordicesima pellicola del MCU, Stephen Strange.

Arrogante, egoista e senza dubbio eccellente nel suo lavoro, il Doctor Strange è un neurochirurgo di fama mondiale. Le sue mani compiono miracoli, la sua conoscenza del corpo umano è ineccepibile e la sua vita è un perno che ruota attorno a un ambiente sterile, competitivo, stimolante, noto: l’ospedale in cui lavora. Ma cosa succede quando un incidente lo priva dell’uso delle mani e la sua esistenza sembra non avere più senso?

La disperazione lo conduce a cercare risposte e salvezza in un luogo in cui non avrebbe mai creduto di metter piede, un’enclave nota come Kamar-Taj (Nepal) in cui dimora l’Antico (Tilda Swinton). C’è però un prezzo da pagare, un prezzo che va oltre i soldi e le ore passate sotto i ferri in sala operatoria; il prezzo è essere disposti a sconvolgere tutto ciò che fino a quel momento si dava per scontato, inclinandosi alla prospettiva più ampia delle arti magiche.

Attraverso il modo di vedere le cose di Doctor Strange Scott Derrickson prova ad aprire il nostro terzo occhio, immettendo nella pellicola riferimenti alla filosofia asiatica, arti marziali e oggetti mistici.

Corpi astrali che compiono ciò che che la mente vorrebbe portare a termine, se non fosse legata alla materia; pensieri che dominano il corpo e magie che si apprendono da libri scritti in lingue dimenticate. Concetti spolverati qua e là, che certo non ci regalano nulla di più di ciò che la ‘cultura generale’ può donare, ma bastano a tenere in piedi per meno di un paio d’ore la carcassa mediatica del 3D, essenziale per mettere in moto una scenografia caleidoscopica, immaginaria e catartica, senz’altro coronata dall’uso della tecnologia IMAX.

Il protagonista, accanto al fedele Mordo (Chiwetel Ejiofor), corre per sfuggire al cattivo Kaecilius (Mads Mikkelsen) e ai suoi zeloti inerpicandosi in grattacieli ondeggianti, strutture architettoniche che si accartocciano su se stesse, scale che si moltiplicano e si intrecciano, dimensioni che non seguono la consueta logica della fisica quantistica. Uno scenario che potrebbe facilmente accostarsi a quello creato da Christopher Nolan con Inception ma che è certamente più giusto far risalire a Escher e Rubik.

Doctor Strange

Non mancano, in Doctor Strange, citazioni di striscio ad altre ambientazioni dei cinecomic Marvel, come il regno oscuro di Dormammu che richiama alcuni scenari di Ant-Man e ovviamente la scena post-credits che crea come sempre un fil rouge con gli altri film del MCU.

Suggellano la magia oggetti dalla storia atavica e dal fascino eterno, come la cappa della lievitazione, gli stivali indossati da Mordo e chiaramente l’Occhio di Agamotto (una delle Gemme dell’Infinito), che permette di giocare col tempo mandandolo avanti e indietro o creando loop temporali, in un immobilizzarsi della vita quotidiana che mostra appieno la perfezione fotografica di Ben Davis.

Il plus di Doctor Strange è però la colonna sonora, firmata dal grande Michael Giacchino e in grado di evocare – con suoni che sfiorano il rock più estremo, o al contrario si avvicinano alla pace dei sensi – tutta la magia che Stephan Strange convoglia tra le sue mani, mentre salta da una dimensione all’altra.

Con un cast stellare composto anche da Rachel McAdams nei panni della dottoressa Christine Palmer, Benedict Wong in Wong e ancora Michael Stuhlbarg, Benjamin Bratt e Scott Adkins, Doctor Strange risulta un film non perfetto per ciò che concerne la caratterizzazione dei personaggi, ma plasmato da quell’alone di ironia, mistero e godibilità che la Marvel cerca sempre di suscitare.

Regia - 3.5
Sceneggiatura - 3
Fotografia - 4
Recitazione - 4
Sonoro - 4
Emozione - 3

3.6