Venezia 75 – Dachra: recensione
Tra stregoneria e fatti reali, Dracha è l'horror tunisino che tenta di fondere verità e fiction senza però ottenere il risultato sperato.
Ci sono fatti che spaventano più di quanto la fantasia possa anche solo immaginare. Storie da raccapriccio che fanno gelare il sangue nelle vene, talmente assurde da non poter essere partorite puramente dalla fantasia, ma che da questa possono venir rielaborate e diventare spunti di interesse per la realizzazione di racconti letterari e cinematografici. È quello che è successo a Dachra, film tunisino presentato nella sezione della 33ª Settimana Internazionale della Critica della Mostra del Cinema di Venezia. Superstizioni e tradizioni fanno da sostegno alla sceneggiatura di Abdelhamid Bouchnak, al contempo alla scrittura e alla regia di un horror d’immaginazione che affonda le proprie credenze nella tragica realtà della scomparsa di bambini nella Tunisia più nascosta e inquietante.
Un insegnante affida ai propri alunni un compito ben importante: realizzare un reportage con materiale inedito da presentare poi a scuola. Yassmine (Yassmine Dimassi) e i suoi due amici Walid (Aziz Jbali) e Bilel (Bilel Slatnia) prendono seriamente il compito, decidendo di riportare un fatto risalente a venti anni prima che vide coinvolta una donna e un ritrovamento. La vittima, chiamata da tutti Mongia, è stata ritrovata mutilata e da tanto tempo è stata soggetta alla definizione di strega, ed è proprio la protagonista ideale per una storia a cui nessun altro potrebbe pensare. Ma le cose per i tre studenti si complicano rovinosamente, mentre si ritrovano a dover affrontare le stranezze di un villaggio in cui vengono tenuti quasi come ostaggi.
Dachra – Un’opera prima horror insufficiente e chiusa su se stessa
È di certo un senso di paura mistica quello che cerca di trasmettere la pellicola di Abdelhamid Bouchnak. Lo sconosciuto avvolto dal mistero della stregoneria che porta comunità ad unirsi e a compiere le azioni più disgustosamente brutali. Il pericolo, l’isolamento, la sensazione perenne di morte. Tutte percezioni che un cinema come quello dell’orrore ha il dovere di mantenere se vuole approdare anche al benché minimo risultato, ma che si rivelano del tutto insufficienti all’interno del primo lungometraggio cinematografico del giovane autore.
Nella più scontata delle atmosfere, nel grigiore offuscato da una costante nebbia con cui si apre il film e che non ha intenzione di abbandonare mai la scena, Dachra mantiene costante una staticità registica e narrativa che, prolungata, tende a sfiancare lo spettatore per la sua mancanza di informazioni, non in maniera enigmatica e per questo non intrigante, ma confusionaria come se avesse un’unica cosa da dire e non potesse dirla immediatamente, saturando il racconto e diventando insopportabile nel suo proseguire.
Dachra – un horror narrativamente debole
Insopportabile come sanno essere i suoi personaggi principali, monotematici e più intenti ad urlare a vuoto le proprie opinioni senza realmente tentare di interpretarle e adattarle alle situazioni, di conseguenza apportando un danno alla parte recitativa, lasciandola completamente in balia di se stessa. Non che orientarsi negli spostamenti di Dachra sia qualcosa di facile. Il film si dilata e si comprime a suo piacimento, parlando solo e soltanto a sé e mostrando un atteggiamento che sembra voler limitare la partecipazione dello spettatore al dramma orrorifico.
Dachra non va dunque da nessuna parte, chiudendosi nei propri incubi e non sapendoli indirizzare verso l’obiettivo di una paura condivisa. Un’opera prima che non trova la maniera di decollare e rimane fissa sull’idea di dover terrorizzare senza sapere però come fare, con una serie di prevedibilità che si affiancano ai momenti inconcludenti della pellicola, espressi con distrazione nel suo caos finale. Un primo tentativo fallito, dove i rituali della stregoneria non hanno sortito gli effetti sperati.