Venezia 76 – Burning Cane: recensione
Recensione di Burning Cane, un dramma scritto, diretto e montato da Phillip Youmans, regista afroamericano che presenta il suo primo film a Venezia 76.
Quanto si è disposti a sacrificare della propria vita pur di salvare la propria anima, in nome di un bene superiore? Dove può arrivare la forza di una madre, davanti al progressivo declino psicofisico del proprio figlio? Burning Cane, film di debutto di Phillip Youmans (lavora al film anche in qualità di sceneggiatore e montatore), primo regista afroamericano ad aggiudicarsi il Founders Prize al Tribeca Film Festival, racconta la straziante storia di una madre profondamente religiosa, Helen, che deve trovare un modo per aiutare il figlio e il reverendo della sua comunità, entrambi alcolizzati, cercando al tempo stesso di rispettare i suoi massimi principi di fede.
Il film si divide in tre blocchi, ciascuno dei quali presenta tre storie diverse, che si intrecciano tra di loro. Daniel è un padre di famiglia alcolizzato che, proprio a causa della sua dipendenza, ha appena perso il lavoro. Deve, così, occuparsi del figlioletto Jeremiah, mentre la moglie si rimbocca le maniche per mantenere la famiglia. Il Reverendo Tillman, nonostante continui a predicare le lezioni del Signore e i comportamenti che un buon Cristiano dovrebbe adottare, è in piena crisi di fede: subito dopo aver perso la moglie, si rifugia in un vortice di alcolismo, dal quale risulterà più difficile del previsto uscire. I destini di Daniel e del Reverendo Tillman sono legati dalla figura materna di Helen, ben intenzionata a prendersi cura di chiunque si trovi in difficoltà.
Burning Cane tratta in modo superficiale i temi centrali del film (alcolismo, religione e violenza domestica)
Sfortunatamente Philipp Youmans, al suo debutto alla regia, non riesce a trasmettere il messaggio profondo che, probabilmente, voleva veicolare. Burning Cane fatica a ingranare e affronta temi di un certo spessore, come l’alcolismo, la religione e la violenza domestica, con troppa superficialità, tanto che la loro argomentazione diventa offuscata e non particolarmente approfondita. Un senso di poca chiarezza pervade la pellicola nella sua interezza, reso ancora più evidente dal montaggio, che lega senza uno specifico nesso le tre situazioni, dalla fotografia, a volte troppo scura per capire cosa stia accadendo in scena, e dalla sceneggiatura che non osa, quasi avesse timore di scavare nella psicologia dei rispettivi personaggi.
Vengono riproposte le medesime scene di disperazione e di abbandono ai vizi, senza aggiungere spunti di riflessione che potrebbero essere prodotti dagli spettatori, e che potrebbero servire a dare una maggiore costruzione dei personaggi e anche dei relativi contesti. Tra i vari personaggi, per esempio, sarebbe stato interessante scoprire di più il personaggio di Jeremiah (figlio di Daniel e nipote di Helen), ma il regista ha preferito porre l’attenzione sul silenzio, e soprattutto sullo sguardo del bambino (forse una sorta di disperato grido d’aiuto ignorato), non precisando le sue sensazioni e le sue opinioni su quel quadro decadente che la sua vita prospetta di essere.
Burning Cane non riesce a coinvolgere gli spettatori, a causa di un mancato approfondimento psicologico
Naturalmente, la quasi totale assenza di un contesto e di un approfondimento psicologico, al di là delle debolezze della psiche e del fisico umani, ha delle ripercussioni negative anche sulle performance del cast, in particolar modo dei tre protagonisti: la madre Helen, il figlio Daniel e il Reverendo Tillman, interpretati rispettivamente da Karen Kaia Livers, Dominique McClellan e Wendell Pierce. Non riuscendo a comprendere fino in fondo le motivazioni dei rispettivi personaggi, le loro performance non sono propriamente credibili, e talvolta sembrano anche fin troppo forzate.
Nonostante ci siano le migliori intenzioni, Burning Cane non riesce a coinvolgere gli spettatori nei momenti drammatici vissuti dai protagonisti, al contrario, la mancata abilità nel gestire sapientemente le tre storie e i suoi personaggi, crea, in modo controproducente per la buona riuscita del film, una sorta di distacco dal dramma narrato.