Cannes 2018 – Ayka: recensione del film di Sergey Dvortsevoy

Ayka non si può fermare, ma in realtà non sa dove sta andando, spinta da una smania di riprendere in mano la sua vita come se potesse cancellare il fatto di aver partorito, di aver dato la vita.

Ayka (la bravissima Samal Yeslyamova) è una ragazza di origini orientali emigrata in Russia. Ha appena partorito ma decide di fuggire dall’ospedale, prodigandosi per tornare a lavorare mentre il suo corpo – ancora non pronto – si rifiuta, mettendola in difficoltà.  In tutto questo, Sergey Dvortsevoy la segue con la macchina da presa in spalla, descrivendo con lunghi piani sequenza le fatiche impossibili di una donna che ha le necessità impellente di rimettersi insieme subito, scordando in fretta di avere un figlio.

Ayka ha appena dato alla luce un bambino.
Non può permettersi di avere un figlio.
Non ha lavoro, troppi debiti da rimborsare, nemmeno una stanza per lei.
Ma conta sulla natura, che si riprenderà i suoi diritti.

Non c’è nessuno nella vita di Ayka, se non qualcuno con cui ogni tanto parla al telefono,  la sorella che le chiede perché è fuggita ma non è disposta e prestarle denaro e i suoi debitori, che cerca di seminare cambiando numero. Si capisce che aveva grandi progetti per sé, avendo acquistato molte macchine da cucire per aprire una sartoria, ma ora non ha i soldi per pagarle, trovandosi a fuggire dai debitori mentre cerca di racimolare denaro accettando qualunque impiego.

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Cannes 2018 – Ayka: una donna che tenta di scappare da se stessa

Nessuno rapporto umano, solo un corpo che continua a cedere sollecitato da compiti che non è ancora in grado di riprendere. Una continua emorragia di latte e sangue, in contrasto con le gelide strade innevate di una città che appare anonima, impersonale, e non disposta a offrire aiuto. In tutto questo, una clinica veterinario in cui i ricchi padroni si prendono amorevolmente cura delle loro bestiole ammalate o ferite, riversando sui loro animaletti un’umanità che non sembra trasferibile sugli esseri della loro stessa specie, quegli “alieni” arrivati in massa dall’oriente in cerca di un lavoro per sopravvivere, ma in gran parte clandestini destinati alla miseria.

Ma Ayka non ci sta, non vuole vivere in miseria, ma non riesce a capire che non è possibile andare oltre il suo limite fisico e – più in profondità – non è possibile ignorare il fatto di essere diventata madre, qualunque siano state le circostanze che l’hanno portata alla gravidanza e all’abbandono.

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Sergey Dvortsevoy ritrae la storia di questa donna in difficoltà, tacendo il fine del suo film, lasciando solo parlare le azioni frenetiche di una donna abbandonata a se stessa e alle sue scelte probabilmente obbligate. Ayka non si può fermare, ma in realtà non sa dove sta andando, spinta da una smania di riprendere in mano la sua vita come se potesse cancellare il fatto di aver partorito, di aver dato la vita. Ma il potere della natura sembra essere più forte di ogni resistenza e rimozione e la donna sarà costretta a fare i conti con la sua parte emotiva, forzatamente messa a tacere per 5 lunghi giorni.

Una pellicola silenziosa e diretta, ma verso una direzione che sfugge, indefinita come le motivazioni che spingono la protagonista lontano da suo figlio, verso un altrove in cui non doversi rassegnare all’indigenza. Un altro che appare sempre più come un’utopia.

Regia - 2
Sceneggiatura - 1.5
Fotografia - 2
Recitazione - 3.5
Sonoro - 2
Emozione - 2

2.2