Arsa: recensione del primo film dei Masbedo
Il primo lungometraggio diretto dal duo artistico Masbedo, con protagonista l'esordiente Gala Zohar Martinucci, esce al cinema il 24 aprile distribuito da Fandango
L’arte visuale si fa filmica nel primo lungometraggio diretto dal duo artistico Masbedo. Nicolò Massazza e Jacopo Bedogni realizzano con Arsa un’opera che poggia sull’intelletto fotografico e visivo che, negli anni, ha portato i due artisti a confrontarsi con moltissime forme d’arte fino ad approdare al cinema, espressione massima di quell’immagine in movimento da essi voluta e ricercata. Prodotto da Eolo Film Production, Salciòn e Rai Cinema e distribuito da Fandango, il film interamente girato sull’isola di Stromboli, vede alla scrittura lo sceneggiatore Giorgio Vasta – fattosi conoscere recentemente per la collaborazione con la regista Emma Dante (Via Castellana Bandiera, Le sorelle Macaluso, Misericordia) – e come interpreti l’esordiente classe 2004, Gala Zohar Martinucci, accompagnata da Jacopo Olmo Antinori (Diavoli, I Medici, Katabasis), Luca Chikovani (La Chimera, Gucci), dall’altro esordiente Giovanni Cannata e dalle due guest star Lino Musella (Gomorra, Ferrari, L’amica geniale) e Tommaso Ragno.
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Arsa: tra sogno e realtà

Sull’isola di Stromboli Arsa (Gala Zohar Martinucci) vive una vita silente e solitaria, lontana da un mondo che ella osserva e analizza da remoto. Scandisce le sue giornate riciclando oggetti e frammenti rinvenuti dal mare e abbandonandosi ai ricordi d’infanzia, gli unici momenti in cui ancora vive il padre di lei (Lino Musella), scultore artigiano costretto ad un lavoro su commissione sotto la supervisione di un materiale e cinico padrone (Tommaso Ragno), in quello stesso laboratorio da lei ora utilizzato come rifugio della propria memoria.
A scompaginare le carte arrivano tre giovani turisti sull’isola, tra cui Andrea (Jacopo Olmo Antinori) mostra da subito un certo interesse ed una certa affinità con la protagonista la quale, nonostante ciò, degna i tre di ben poche parole. È proprio il mare a fare da canale – prima attrattivo e poi respingente – tra i due, con le nuotate di entrambi che convergono a quella statua sottomarina emblema di quel dialettico rapporto tra arte e natura che viene narrato e simbolo di paternità, una paternità che sia Arsa che Andrea possono trovare solamente nel loro passato, nei pensieri, nella fantasia, nel sogno.
Osservazione silenziosa

Arsa è una riflessione silenziosa e struggente sulla solitudine, quella che non urla, che non si impone, ma osserva. La protagonista guarda il mondo da lontano, affacciata sul mare o nascosta dietro un binocolo, come se stesse inseguendo la propria immaginazione per ricongiungersi a qualcosa che ha perduto: suo padre, la sua origine. La soglia tra sogno e realtà è il suo spazio abitato. Arsa vive fuori dal tempo e dallo sguardo degli altri, e da lì costruisce un linguaggio tutto suo per decifrare il mondo. La natura, con un personaggio, le restituisce ciò che gli altri hanno scartato: frammenti di plastica, relitti, memorie. Lei raccoglie tutto e lo trasforma, dando vita a un’arte nuova, che nasce dal dolore.
Arsa ha metabolizzato l’assenza paterna attraverso la creazione, dando forma a un mondo altro, immaginifico e resistente. Andrea porta con sé una visione diversa, ancora incapace di elaborare il proprio dolore. Il loro incontro non è romantico, ma emotivamente dissonante: è il contatto tra due solitudini che si sfiorano, senza fondersi. E quando nuotano verso la statua sommersa quel gesto diventa un rituale, un tentativo di contatto. In questo paesaggio arte e natura si fondono per raccontare la resilienza, la possibilità di creare significato dove tutto sembra destinato a perdersi.
Arsa: valutazione e conclusione

Arsa è un’opera prima che colpisce soprattutto per la sua potenza visiva: la fotografia è straordinaria, capace di restituire l’asprezza e la bellezza selvaggia di Stromboli in ogni inquadratura. Girare a Stromboli non è stato facile – il luogo è magnifico e ostile insieme – ma proprio questa sfida ha impresso al film un’intensità autentica, frutto di una dedizione palpabile in ogni fotogramma. La sceneggiatura, pur nella sua semplicità, regge bene e accompagna lo spettatore dentro un universo poetico e sospeso, anche se a tratti la recitazione ancora acerba rischia di spezzare l’incanto. L’emozione c’è, ma il taglio quasi documentaristico toglie, a volte, quella magia che sembra pronta a esplodere ma resta trattenuta. È giusto che i Masbedo continuino a sperimentare: il loro sguardo è forte, la loro impronta visiva riconoscibile e potente. Ora il passo successivo è affinare il modo in cui questa visione prende corpo attraverso la narrazione.